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15 aprile 2013


Prima o poi salta fuori. Giri le pagine di un libro, o quelle di un anno finché non arrivi a quel punto.
Quel punto senza dimensione né colore, senza tempo né dimensioni. Senza tempo ma irrevocabilmente ancorato nel tempo, perché altrimenti non avrebbe altro sapore se non quello di un vuoto secondo senza storia, mentre è la storia stessa che da gusto all’esperienza.
Quel punto in cui ti rendi conto che a volte la vita ti scorre di fronte troppo velocemente, come un parco giochi pieno di luce in cui un divertimento nuovo sfuma nel ricordo di quello passato così che alla fine rimane poco più che un paio di bruciature sulla pelle e una foto da mettere in camera con volti che sorridono senza sapere per cosa.

 Servirebbe il tasto pausa di tanto in tanto. Le pause bloccano il sentimento; danno l’impressione che qualcosa sia finito, mentre non abbiamo il coraggio di ammettere che siamo noi ad aver premuto il pulsante.
Bisognerebbe vivere di appunti, di post-it appiccicati in ogni oggetto, in ogni giornata. Frasi brevi, di taglio forte e pungente. Frasi lunghe, sinuose nel loro mistero di un tempo andato. Semplici parole, da sole, per far sì che l’ebbrezza di un momento non svanisca nel turbine infuocato delle cose da fare.

 Qualcuno disse che “occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina”. Terribilmente vero. Senza la drammaticità dell’attimo, la parola non è solo vuota e priva dell’oggettività della carne, ma è pericolosa. Troppo soggettiva perché possa essere un affare di uomini.
Ma senza il cristallo di un giudizio, il fatto non diventa esperienza e l’esperienza non diventa verità.

Proverò a tener fede a questo proposito, a tenere uno straccio di bussola tra le riflessioni che vengono fuori ogni giorno. Fosse anche solo per un’idea, sono pronto a giocarci tutto l’impegno.

25 aprile 2011

Quel miracolo di felicità che si anima di fronte ai miei occhi

Il sole domina su questo cielo azzurro di metà aprile.  Il caldo è forte, ma non insopportabile, un caldo che copre e abbraccia ogni centimetro di pelle, donandole lentamente una sfumatura ambrata. La luce si rispecchia in mille riflessi dorati correndo su ogni granello di sabbia fino ad esplodere nella distesa screziata del mare. Intorno, i passanti si distendono in ampie passeggiate lungo la riva, concedendosi uno scorcio di estate pur all’inizio della primavera. La spiaggia rimane tuttavia poco affollata e silenziosa, così che il mare sibila sornione infrangendosi lentamente in milioni di piccole goccioline biancastre.

I nostri teli colorati sono disposti abbastanza lontano dallo smisurato tappeto di acqua azzurrognola ma in te intravedo l’infinito più di quanto l’orizzonte del mare possa anche farmi soltanto immaginare. Sei stesa supina e parli in continuazione di passato, futuro, esperienze e progetti mentre le tue esili braccia si alzano e abbassano in aria compiendo intricati disegni che si fondono ai tuoi ragionamenti. Anche il fragore del mare si fa più sordo e docile per non coprire nemmeno una sola lettera delle tue lunghe frasi. I tuoi occhi fulgidi indagano ogni frammento di cielo limpido dipingendo tutta l’aria frizzante del loro sincero sorriso. Mi ha sempre estasiato il fatto che il tuo sguardo brilli di luce propria, come una stella, e che ogni cosa intorno non possa fare a meno di riflettere questa splendida luminosità.
Nonostante l’inverno si sia da poco concluso, il pallore ha già abbandonato il tuo corpo, il quale, coperto con dolcezza da un costume verde scuro, ricorda con meraviglia quello di una antica dea, terribilmente bella e amabilmente maestosa. Il vento, leggero e gentile, accarezza timidamente i tuoi capelli sciolti che rivelano sotto il sole folgoranti scintille bionde mentre vorticano con dolcezza nel loro deciso color castano.

Rimango in silenzio, assieme al mare, ad ammirare quel miracolo di felicità che si anima di fronte ai miei occhi e con la mente imprimo senza sforzo splendidi fotogrammi di te. Il suono della tua voce cessa e il tuo viso si volta verso di me, impassibile ma sgargiante nella sua estrema pienezza di vita. Percepisco tutto il mondo nello stesso istante, ogni frammento di realtà si impone veemente nel mio pensiero. Mi si affacciano paesi mai visti, popoli mai conosciuti; immagini di montagne altissime e innevate che si inseguono in catene imperiose fino a gettarsi sul mare, immagini di uomini impolverati, intenti a contendersi questa o quella merce in un mercato orientale, immagini di una città sconfinata, illuminata ovunque da centinaia di cartelli luminosi, piena di macchine, rumori ed energia.
Il contatto fra le nostre iridi si interrompe quando torni, silenziosa, ad osservare la volta celeste. Mi giro anche io, fissando attento quell’immenso blu. Il mare continua a ribollire allo stesso ritmo del sangue nelle mie vene, estasiato pur'esso da quell’inondazione di vita.

Non so cosa ci sarà tra noi due, non so nemmeno cosa accadrà fra un’ora: la vita è imperscrutabile e non ha rispetto di nessuno; ma so che nei tuoi occhi è riposta una promessa di bellezza e felicità, una certa speranza di una letizia senza confine, che di sicuro non potrà tornare ad essere inghiottita dalla risacca del mare.

7 marzo 2011

A che serve un contatto quando non c’è nulla per cui vale la pena rischiare?

Persa. Sei uscita dalla mia vita con la stessa rapidità con cui sei entrata. Andata. Fuggita. Sparita. Il tuo sorriso ha cessato di rischiarare l’inizio di un giorno nuovo. Le tue parole hanno smesso di accompagnarmi in una triste sera. Eri l’ultimo appiglio che mi era rimasto, l’ultima speranza di un lieto domani, l’ultimo briciolo di voglia di restare aggrappato a questa vita, pur soffrendo. Tutto il resto scivolava via senza colpirmi finché tu eri con me a lenire il dolore, accarezzando ogni graffio col calore della tua pelle. Ora sento le ferite di mesi piombare sul mio corpo esanime e scavare a fondo in un terreno sterile e decadente.

Maschero il mio corpo, ma i miei occhi non possono tradire il vuoto in cui la tua assenza mi ha spinto all’improvviso. Sto precipitando di minuto in minuto in un nero senza forma e senza sapore dove la luce, scomparsa, vive in null’altro che l’immagine di un ricordo. Una flebile fantasia rimane assopita nel mio cuore, dilaniata allo stremo, sempre più disarmata e fragile. Presto non rimarrà niente.

Con te ho perduto la capacità di amare qualcuno. L’odio, freddo e potente, rimane il mio solo compagno e cresce nell’ombra corrodendo ogni rapporto che potrebbe rimanere. So che presto anche quest’ultimo sentimento cadrà, quando niente potrà più interessarmi tanto da essere odiato, quando il nuovo mattino non sarà altro che uno spento riflesso del passato. L’assenza di amore non è l’odio: è solo il termine di ogni contatto con la realtà. Ma a che serve un contatto quando non c’è nulla per cui vale la pena rischiare? E quando tu, vessillo sottratto di una salvezza irraggiungibile, non ci sei più?

18 gennaio 2011

Spietato

Il tempo corre. O meglio il tempo scorre. Sono gli uomini che corrono. I minuti si alternano gelidi e pesanti sempre col medesimo ritmo; eppure noi, mai paghi, ci affrettiamo ad inseguire ogni flebile ticchettio di orologio che scivola inesorabilmente nel vuoto abisso del nulla.

 Gli uomini corrono, ma non cambiano. La mia mano instabile si posa vacillando su ogni persona come per tentare un ultimo affondo alla vita, un ultimo folle tentativo di rimanere aggrappato a qualcuno. Gli uomini corrono, ma non cambiano.  A volte sento di aver trovato la persona giusta per me, mi ripeto convinto che tutto cambierà, che ora si incomincerà qualcosa di nuovo. Una ragazza, un amico , una compagna mai calcolata in precedenza ma che in quel giorno mi svela un sorriso spalancato al mondo in cui è riflesso tutto ciò che desidero in un rapporto. Allora mi gioco tutto. In un breve istante la partita inizia, la posta aumenta così come la paura di perdere ogni cosa. Nell’ombra di quel sorriso inizio a conoscerla, a cercare i punti di unione nei nostri caratteri per sentirmela vicina. Gli uomini corrono, ma non cambiano. Anche io rimango qui: fermo, immobile, stazionario eppure diverso.
 Forse il problema è questo, forse il problema sono io; vado avanti di giorno in giorno forzandomi di comparare ogni uomo che mi si pone davanti con me stesso: cerco qualcuno che in cuore abbia ciò che ho io. In ogni amicizia, tuttavia, non posso fare a meno di notare come nessuno sia come me.
 Spesso si ripete che in cuore abbiamo tutti la stessa domanda, la stessa amorevolmente dolorosa esigenza di felicità. Eppure io non vedo questo negli altri. Andando a fondo in un rapporto, le persone appaiono fondamentalmente immature, o prepotentemente sicure della loro maturità.  

I primi si ritrovano a vivere sulle nuvole, attaccati a mielosi ideali, investendo su parole usate da altri e non interessandosi a ciò che conta in maniera ultima. Favoleggiano di problemi insignificanti, tornando col sorriso a sognare il loro mondo fatuo e rosato, senza temere il giorno in cui si troveranno a singhiozzare in ginocchio su un cumulo si vetri infranti.

Arrivano dunque i maturi, dissipando giudizi, avvalendosi di cicatrici inventate e esperienze rubate. Uomini vuoti, l’insoddisfazione è signora in essi. Ma lo sanno anche loro: nell’ultimo frammento rosso di un cuore nero pulsa la consapevolezza di un errore di fondo, di una fallace certezza di cui vanno fieri. Tutto questo rimorso nei confronti della vita li spinge così ad alternarsi in azioni meschine e taglienti sotterfugi, orditi per invidia più che per una speranza da riscattare.

Vi è, tuttavia, chi non è rapito da questi schemi e, libero da ogni illusione o pregiudizio, tenta ancora di avanzare per la propria strada, per non soccombere poi a nessuno dei due strapiombi. L’attrazione, però, è forte, e la discesa veloce e apparentemente indolore.

Guardo il display del telefonino in attesa di un tuo messaggio, alzo gli occhi verso di te in cerca del tuo sguardo. Tu eri come me, ti avevo trovata. Il tuo cuore è rosso, batte con decisione e coraggio. I tuoi occhi brillano e cercano la verità. Il tuo pensiero è fresco, libero, e non si lascia deviare. Eppure scivoli via. Le persone non cambiano e tu non cambi. Gli uomini corrono e tu, senza accorgertene, scivoli lontana da me, attratta da chi, tristemente, afferma di conoscere la vita, di poter crescere insieme a te, trascinando via, così, la mia ultima speranza.

Io rimango qui: fermo, immobile, stazionario eppure diverso. Non posso più permettermi di affidare a qualcuno il mio cuore. Quando un’amicizia finisce, io stesso mi sento estirpato e sbattuto chissà dove. Ormai rimane poco di rosso del mio cuore. Non nero, non sporco e malvagio, ma bianco, vuoto e spietato. Spietato. Senza pietà. Senza commozione, sentimento o paura. Non cattiveria: solo assenza di amore. E’ inutile tentare qualcosa di nuovo,cercare qualcuno che possa nuovamente afferrarmi l’animo per poi gettarlo via dopo mille illusioni. Io riparto da me, me soltanto. Spietato.

26 dicembre 2010

Il nero è triste, come la realtà. Ma è voglia e speranza.

Notte bianca. La notte è bianca quando la si vuole illuminare a giorno, quando la si vuole riempire di persone, di divertimento e di qualsiasi attenzione ti faccia scorrere adrenalina davanti agli occhi, perché vuoi essere vivo.

Ogni santo sabato sera ricerco quel bagliore febbrile affinché mi guidi attraverso un fine settimana, affinché mi faccia dimenticare lo smarrimento di ore e ore passate sui libri.

E poi ci sono le notti nere. La notte è nera al buio della mia stanza. Una notte di me, me soltanto. Il bello è che all’inizio non voglio, cerco di fare tutto per evitarla. Tento con energica foga, originata dal torpore esasperante dello studio settimanale, di macchinare qualcosa per quel sabato, puntando tutto su ciò che riuscirò ad organizzare.

Ma poi arriva il due di picche dei soliti compagni di brigata e capisco che me ne dovrò stare a casa. E’ sbagliato descrivere quel sabato sera come “obbiettivo”, meglio definirlo “una mia forzata aspettativa” senza l’avverarsi della quale mi sento spento e demoralizzato, quasi come se, ormai, la 
speranza fosse assopita sotto una coperta di lana.

Ed è allora che si gioca tutto: quando mi ritrovo di fronte ad un monitor di luce pulsante, con una lattina in mano e un cellulare che si accende a malapena in fremente attesa sulla scrivania. Anzi sulla sciarpa, perché mi da fastidio sentirlo vibrare. A pensarci è un comportamento davvero stupido: aspetto ore e ore in attesa di un sms che introduca qualche novità nel mio orizzonte e appena ciò accade, quel vrrr vrrrrrrr mi fa subito capire che in fondo quel sms sicuramente non mi avrebbe portato in avanti sul red carpet della felicità. Che scoperta la tecnologia!

E lo stesso vale per il sabato sera: ti prefiggi tanti progetti da adempire disciplinatamente, ma poi con assoluta puntualità va tutto a rotoli. Ed è al culmine di quel bruciore interiore che consuma la serata, che ti accorgi che in fondo non saresti comunque stato felice.

O forse sì, ma di certo nessuno ti impedisce di esserlo anche a casa, da solo.

 Io, per esempio ho voglia di vivere , ma di una voglia che più non si può che mi scaccia il sonno più dell’alcool. E’ comunque una sera alla ricerca del bianco. Ma di quel bianco che contiene tutti i colori. Anche il nero. Soprattutto il nero. Perché il nero è la spinta senza la quale non mi muoverei affatto per raggiungere la luce. Il nero è desiderio di vita.

Di solito la gente pensa che la tristezza e la felicità siano due stanze separate, a volte stai in una, a volte stai in un’altra. Altri ancora pensano che la tristezza sia una corridoio per raggiungere la felicità. Una volta, invece, mi hanno raccontato una terza ipotesi, a mio avviso davvero interessante: la tristezza e la felicità sono la stessa unica stanza, sta a te vederla come vuoi.

Come ci insegna il Piccolo Principe, le cose cambiano a seconda di come le guardi. E mai come in queste sere posso capirlo: il nero, la tristezza, o qualsiasi modo in cui le si voglia chiamare, non sono semplicemente un’automatizzata spinta spasmodica e forzata alla vita, ma sono l’essenza stessa di questo desiderio.

La tristezza è voglia di vivere? Allora io voglio essere triste ogni giorno. E sempre di più.

10 novembre 2010

Momento di lei

Luci, clacson, rumore, gente che va e gente che viene. Musica per le mie orecchie. Spengo il motorino per godere la frenesia di tutto quel movimento, rimanendo fermo sulla soglia della notte inebriante. Fermo, impassibile e sull’attenti, in rispettoso riguardo dell’impenetrabile intrico di guizzi di vita che esplode nella frizzante aria del crepuscolo. 
Momento di sogni, momento di giochi, momento di fuochi fatui e infide illusioni. Momento di lei. Impetuosa come il fuoco, ma silenziosa come il più leggero dei venti che nonostante la sua incorporeità travolge in un affanno senza limite ogni particella di ciò che sfiora. Ogni sguardo, ogni respiro è catturato da quel magico spettro di luci che in lei trova il massimo splendore. Misteriosa come la notte, ma semplice come la luce: lei, con un fresco sorriso, accoglie e accompagna con fragile dolcezza ad uno ad uno questi fremiti di cuore che sembrano dedicarle ognuna delle limpide stelle che tinteggiano un poco alla volta il manto nero della notte. 
La sua presenza mi strugge di un dolore che amo, il suo fuoco mi consuma di una fiamma che desidero, il suo tocco mi annienta di una ferita che bramo. 
Una lacrima di sangue sgorga in profondità dal mio cuore in estasi. Il piacere mi assale, il desiderio cresce, persino l'amore riconosce però che non si può possedere una tale grandezza. La fermezza del mio sguardo cede a contatto con il suo, passo dopo passo sono costretto ad abbassare la visiera smerigliata di goccioline come a proteggere i miei occhi quasi indegni di così tanta luce. 
Le porgo il casco senza proferire parole, lei scherza indossandolo e cerca il mio sorriso schernitore. Un sorriso forzato dalle mie guance che non scalfisce minimamente il suo splendore, ma si rivolta bensì al suo perso fattore. 
Lei sale sul motorino, dietro di me, con quella semplicità che caratterizza visceralmente ogni suo gesto più importante. Sento due mani poggiarsi debolmente ai miei fianchi, mentre un tremolio mi risale gelido per tutta la schiena. 
Vorrei che le sue dita mi stringessero con forza fino a lacerarmi l'anima, già perdutamente straziata in milioni di stralci differenti, accomunati tutti dall'amore per lei. 
Respiro con forza, mettendo in moto il cinquantino. Sento invadermi di nuovo dalla frenesia della città, un movimento agitato di cui io non riesco a far parte. Ogni fanale, ogni motore si muove verso qualcosa, nell'attesa di una vivida speranza di felicità. 
Il mio muovermi non può possedere nulla di questa ricerca. La mia felicità l'ho alle spalle, mi sfiora appena. Ma non è raggiungibile nemmeno con il più epico dei viaggi.

26 ottobre 2010

Zero assoluto

Sento freddo. Un gelo ripercorre le mie vene dall’alto in basso senza un ordine preciso. Non so da dove provenga, fuori c’è il sole anche se sta tramontando e i termosifoni sono accesi. Non è nemmeno quel freddo che ti coglie prima delle interrogazioni, quel brivido misto ad agitazione che non presagisce nulla di buono. No, non c’è nessuna interrogazione nel mio programma della serata, anzi non ho niente in programma. Il gelo è dovuto al vuoto. Non è nulla, è solo assenza di calore. Come la tristezza è assenza di felicità. E’ rincuorante pensare che non esistano la tristezza, la fame, la malattia, ma siano solo mancanze di qualcosa d’altro.

Ma fatto sta che è freddo: non sarà nulla, ma i brividi non finiscono lo stesso. Non so cosa fare e anche se lo sapessi non lo farei, questo gelo mi impedisce ogni mossa, ogni tentativo di riprendere un qualsiasi rapporto con realtà. Tutto si muove intorno a me, tutto va avanti con lo stesso vorticoso ritmo. Un ritmo che trascina ogni corpo nella sua morsa vertiginosa. Ogni corpo meno che me: non mi va di ballare, a volte credo di non esserne affatto capace. Sono fermo ad attendere qualcosa che non arriva. “Un treno che non passa” dice una canzone, “nell’ansia dell’attesa di un miracolo” ripete un’altra. Si può definire in tanti modi perché non è nulla, non c’è, per questo è vuoto. Per questo è freddo.

Persino scrivere diventa un peso, un battere obbligato su tasti senza colore. Vuoti anche loro. E non è un argine che impedisce una fluente esplosione di lettere: un argine viene sempre distrutto, non può mai sovrastare la forza del fiume. E’ il gelo che blocca tutte le parole impedendo che quel fiume possa mandare avanti la flebile speranza di una tremula gocciolina. Magari sotto la superficie l’acqua si muove, ma tutto appare fermo se visto dall’esterno, senza neanche un brivido di vento.

E’ come la paura. La paura non è semplice mancanza di sicurezza, è qualcosa di più. La paura del vuoto è tangibile, terribilmente fredda e tangibile; immobilizzante gelida  angoscia che blocca ad uno ad uno ogni tuo segno vitale, annullando la tua essenza. La paura del vuoto è nient’altro che vuoto allo stato puro. La temperatura è pari a 0, ma non quello del congelatore e nemmeno quello dello spazio: quelli sono infantili zero relativi. Il vuoto è l’unico 0 reale, lo zero assoluto. E io sento freddo, soffocato in questa ghiacciata morsa di assoluta paura.


Canzoni citate:

13 settembre 2010

Brivido di fine estate

Ed eccolo qua il nostro giovane pensatore, ormai giunto con poca scelta all'ultima notte estiva, l'ultima notte viva. Sì, perché le notti autunnali in fondo non sono che un buio ritaglio di tempo tra un giorno e un altro, usate per lo più per riposarsi e separare equamente i lenti giorni di settembre. Quelle non sono che notti nere, notti vuote e prive di ogni intenzionalità dell'addormentato che si ritrova in balia dei proprio pensieri notturni. 

D'estate la notte è decisamente bianca. Bianca come la luce. Sono notti che ogni uomo cerca di illuminare a giorno, perché secondo lui solo di giorno si vive. Da un certo punto di vista è vero: soltanto da svegli si riesce ad essere presenti in ogni circostanza della nostra variopinta realtà. Ma di notte ci sono le stelle. Loro ci sono sempre, anche in una gelida nottata invernale, ma se ne stanno scomodamente riposte all'interno di grigiastri cumuli di nuvole. Mentre al giungere dell'estate esse ricompaiono tutte assieme, facendo finta di niente, come se non si fossero mai assentate. 
E così capita che tu un giorno alzi distrattamente gli occhi e le trovi là, immobili e silenziose, fisse nel ruotare immortale del meccanismo celeste. 

Agosto, notte inoltrata: il giovane pensatore sa perfettamente che le stelle sono lì, come ogni sera, ma alza ugualmente lo sguardo, come ad avere una conferma, un barlume di speranza che anche quella notte è fatta di luce, pura luce che lo rende vivo e cosciente, anche più che con quella solare.
Il ragazzo è giunto all'ultima luce dell'anno, l'ultima prima di tornare a quel lungo e spento ciclo che lo cullerà con malinconica dolcezza fino al prossimo risplendere sfavillante del giugno seguente. 
Questa è l'ultima notte viva, l'ultima notte bianca. Le stelle ci saranno anche domani..e dopo domani..e il giorno dopo ancora..ma non saranno più le stesse, saranno solo piccoli fari che indicano che un'altro giorno è trascorso.  
Così il nostro pensatore rivolge una fulgida e intensa occhiata a quel brivido sfavillante ora più vicino che mai, così vicino come lo può essere solo oggi, al magico capolinea di un'altra splendida estate.