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18 febbraio 2011

Maschera

Il velo di stoffa scivola nell’ombra creando sensuali inganni e sfuggevoli illusioni.  La musica si fa veloce, conturbante, e il vertiginoso crescendo di armonia riempie l’ampio salone di mille gocce di suono. La luce ricade timidamente dalle alte volte, in cui sfilano imperiose lunghe file di lampadari di vetro. Il tempo è fermo, bloccato nello stesso eterno istante da pesanti tende rosse di velluto che coprono anche il minimo contatto con il mondo esterno. Un unico orologio sovrasta il balcone principale, là dove le due scalinate bianche arrivano a congiungersi, ed esso segna lento lo scorrere delle ore; la notte è sempre più tarda in un’atmosfera antica di secoli, pitturata nell’incanto della sala dalle alte note di un piccolo violino.


L’armonia è tenue ma allo stesso momento risuonante di una forza senza tempo, di un rispetto ancestrale più antico di qualsiasi cosa d’altro, tanto che niente smorza col suo rumore la magia della ripida musica. I passi dei danzanti si susseguono in maniera rigorosa e ordinata, seguendo un rituale di regole mai scritte, marchiate nel sangue e dettate dal cuore. Ogni coppia gira senza toccarsi neppure, in una frase del ballo dove solo lo sguardo definisce il vero movimento. Le maschere scure degli uomini si perdono nella bardatura rossa dello donne di fronte a loro.

Una maschera nera fissa la propria gemella purpurea. Nel profondo e rapido scambio di occhiate si gioca l’intero turbine della danza, e il deciso movimento dei due corpi tende a creare un cerchio impenetrabile e intimo, nella sua essenza più interna. L’armonia varia e la danza si fa più intensa mentre mani bramose si incontrano in alto sollevate a mezz’aria, creando un primo barlume di contatto, prima che la coppia si stringa avvicinandosi. La libidine esplode in un’acutissima nota di violino mentre i passi, frenetici e ritmati, sfuggono nella loro pur sensibile eleganza in un vorticare di emozioni senza nome, ormai irrefrenabili e ineludibili nel loro lussurioso incedere. La donna si addossa all’uomo, poi fugge di colpo prima di tornare nuovamente a contatto con l’altro corpo mentre i cuori accelerano il battito e la ragione perde la propria lucidità, lasciando che la musica stessa sia la guida del sentimento.

Le identità sono nascoste, le storie sconosciute; maschere innocenti cancellano intere vite in questa notte di pieno inverno, dove nulla ha importanza al di fuori dell’incedere del ballo. L’uomo in maschera nera non abbandona il tocco della propria donna, e in quell’intenso incontro tra le due mani, entrambi si possiedono come mai porterebbe a fare un qualsiasi altro rapporto.
Nulla è stato prima di ora, nulla sarà né fra un momento né mai. Il presente è il teso frangente che, solo, porta alla realizzazione del ballo accompagnato da una melodia che non si ripete nella maniera più assoluta pur all’interno del suo ciclo senza fine.

La maschera nera vede la figura rossa di fronte a lui farsi evanescente con una rapidità non umana e a nulla vale tendere la mano in un disperato gesto per trattenere la donna al suo fianco. Gli occhi dell’uomo si soffermano con innamorata cura su ogni angolo del salone fino a che la maschera purpurea non sboccia nuovamente in cima alla scalinata.
L’inseguimento ha inizio, i due personaggi si lanciano in un gioco di riflessi e diafane apparizioni dove non potrà esserci vincitore né tantomeno sconfitto. I corridoi del palazzo si susseguono silenziosi, alternandosi a ripidi scalini verso porte scure, serrate sul mistero di stanze mai aperte.

La donna è immobile in fondo ad una lunga stanza, totalmente disadorna eccettuate le lampade ad olio che tentano di illuminare l’incanto di un luogo dove il buio regna sovrano. Il gioco è terminato; l’uomo rallenta il passo mentre si appresta alla nobile figura che gli si pone davanti. Le labbra si avvicinano alimentando quella fiammella che vorace divampa nel più rovente fuoco della perdizione.


L’orologio rintocca di un’ora senza nome. Solo un’altra frazione di una magia senza fine. Una notte soltanto, ma una notte che nessuna vita potrebbe colmare. La magia della musica trasforma in arte ogni palpito del cuore mentre le coppie tornano a contendersi nel rogo secolare di una danza di fuochi fatui; dove ogni istante rifulge di un lampo avido e bramoso in un susseguirsi frenetico di vite mascherate.

4 febbraio 2011

Questa mail mi è arrivata in seguito alla pubblicazione di Spietato e Ho paura. Non condivido le posizioni e avrei molte cose da chiarire, ma mi sembra giusto mostrare anche un pensiero diverso dal mio.


La vita che mistero...mi trovo qua, in mezzo a una famiglia chiassosa e pazza a scrivere a colui che ha appena formalizzato il nero tunnel in cui l'uomo crede di poter vivere. Eppure, eppure la libertà, quella sensazione incredibile che provi di fronte a un tramonto marino mozzafiato esiste. La vita vera è libertà, libertà da ogni fattore esterno. Non si tratta dunque, miei cari scettici, di chiudersi a guscio su sé stessi cercando una fuga nello spazio ristretto del nostro cuore ma di aprirsi: più ci si apre e più si è aperti, liberi, felici e innamorati. L'amore non può esistere senza questa essenziale apertura alla realtà, la donna più bella può starti davanti e il tuo pensiero può restare ancora stoltamente ancorato alla soddisfazione del proprio desiderio. Riempire il nostro vuoto unendosi al baratro dell'altro è impossibile: l'amore, l'amicizia sono mezzi non FINI. Un amore fine a sé stesso è delusione, dolore, peso, LIMITE. Nessuno desidera una palla al piede, ma ogni uomo vuole sentirsi dentro alla vita, libero e potente, nel senso di capace, capace di vivere.
Così, l'incontrare l'altro, lo scoprire la sua conosciuta eppure tralasciata diversità è il mistero più grande. Come può il mio cuore legarsi in un modo così insopprimibile a un altro? Se la ragione è il criterio ultimo sulla realtà benissimo, se qualcuno riesce a esistere come indipendente dai propri sentimenti, ad arrivare a uno stato tale di atarassia, me lo faccia sapere, perchè io non ne sono capace. Io ho bisogno di arrendermi alla vita che irrompe in me, il mio guscio ha ceduto da un pezzo. All'inizio l'impatto è abbagliante, la pupilla si ritrae improvvisamente di fronte alla luce folgorante eppure, dopo un attimo, la voglia di scoprire tutta la bellezza presente è incontrollabile. Come puoi desiderare di non amare? Vuoi divorare la vita, essere spietato, essere potente, ma la cosa più bella è lo scoprire che un albero che tende i suoi nodosi rami al cielo invernale non è stato creato da te, se lo fosse non proveresti più stupore per nulla. La meraviglia, questo lo avevano capito anche i Greci, è l'origine di tutto: smetti di stupirti e smetti di vivere. Ti auguro di vivere come vorresti, non come pensi. Rimani aperto, non chiudere nessuna porta altrimenti i regali non possono entrare.
Io ricevo regali ogni giorno e la cosa più bella è guardare l'altro mentre parla, ride, piange, urla e dire: cazzo ma questo qua è come me eppure non l'ho fatto io. Prova a guardare una persona negli occhi, magari quella che ti piace e che vedi così bella e domandati: cosa ho fatto io di buono per meritarmela?

V.

30 gennaio 2011

Ho paura

Riguardo ancora una volta lo schermo del cellulare, dove lettere scure riempiono soltanto la prima riga del display. Ho paura. Non riesco ad andare avanti. Avere paura è normale, tutti hanno paura e la nostra morale è piena di frasi del tipo: “Se non si ha paura non si può essere coraggiosi, perché il coraggio è vincere la paura”. Ma tutto dipende da cosa si teme. C’è chi ha paura dei ragni, chi del buio; io ho paura di innamorarmi. Innamorarsi è ammettere che da solo non vai da nessuna parte, e io non posso permettermi che questo accada. Da solo mi sento libero, forte e sono capace di affrontare qualsiasi situazione mi si ponga davanti. Mi posso osservare allo specchio e  scorgere ogni volta una scintilla negli occhi, un lampo di determinazione, di consapevolezza che io posso riuscire. Riuscire in tutto.
Quando ti innamori invece, il mondo cade. Non riesco a muovermi senza che il cuore sussulti al ricordo di lei, al ritmo del dolore che mi avvolge. Anche il sentimento corrisposto non porta a nulla, se non ad un lento ed automatico esaurirsi di un’attrazione più o meno fisica.

Non posso permettermi di innamorarmi, non posso permettermi che tutto ciò in cui credo mi si rovesci addosso squarciandomi l’anima in un’affannosa ricerca del nulla. Perché l’amore avrebbe senso se servisse a qualcosa. Invece ogni rapporto si sussegue in una ascensione di angoscia e speranze vanificate che avvicinano sempre di più ad un abisso inevitabile. L’amore è illusione. Non perché non esiste, ma perché ti spinge a credere che qualcuno possa soddisfarti.

Erano mesi e mesi che non stavo così bene. Mi sento tranquillo, in pace e quasi invulnerabile. Nel mio io trovo la forza, so di poter divorare la vita. Essa è totalmente mia, e di nessun’altro, perché sono solo. L’amore me la strapperebbe via assieme ad ogni certezza e non voglio ricadere in questo tunnel amaro.

Domando a E. se è innamorata e mi sento rispondere: “Sono innamorata della vita.” La storia non varia, rimane sempre la stessa, eternamente la stessa. Cambia l’oggetto, ma il vuoto abisso non cambia. Tutte le speranze che ripongo in ognuno dei miei giorni andrebbero comunque a finire nel nulla. Amare la vita significa apprezzare ogni suo gesto e sacrificare tutto per questo. E un po’ come morire per vivere. E io non me la sento di farlo: ho paura. Paura di morire, paura di vivere, paura di amare.
Non paura di non saper donare attenzioni, non paura di non essere ricambiato, ma paura di inoltrarmi in qualcosa che non riesco a controllare. L’amore mi si affaccia davanti scuro e inesorabile, con le braccia aperte e un affabile sorriso. Lo stesso sorriso che vedo sul volto di lei. Gli occhi le scintillano in mille frammenti dorati mentre ogni suo capello esplode sotto la calda luce della lampada a muro. Mi domando perché debba essere così difficile: io chiedo semplicemente che l’amore esca d’un tratto di scena, trascinandosi dietro quel velenoso nugolo di speranze che si lega appresso come marionette.
E non si tratta di essere narcisisti o asociali, né di puro e mero scetticismo. E’ solo stanchezza. Stanchezza di correre, cadere e rialzarsi fino quando non precipiterò del tutto, annebbiato dal passato. Ho paura e vorrei gridarlo, uscire in fretta in strada ed esclamare ad ogni uomo che incontro di mettermi in salvo, di trarmi via da questa trappola che si fa più grande e pericolosa ogni volta che mi viene incontro.
Ma nessuno mi presterebbe ascolto. Mi guarderebbero trasognati con una pallida distanza, ignorando ogni mia parola per rimanere ancora una volta ancorati ai loro sogni patinati d’oro. L’uomo è nato per sperare e non riesce ad ammettere una continua delusione.

Scrivo il messaggio di nuovo. Ho paura. Non conta a chi io lo invii, è solo l’unica ed ultima azione che posso compiere per mettere in guardia il mio cuore, per salvarmi da un ideale già spezzato che comunque non può fare a meno di trascinarmi fuori dalla realtà, perché nonostante io tenti di vincerlo con tutte le forze, il mio animo non vuole smettere di sperare.

18 gennaio 2011

Spietato

Il tempo corre. O meglio il tempo scorre. Sono gli uomini che corrono. I minuti si alternano gelidi e pesanti sempre col medesimo ritmo; eppure noi, mai paghi, ci affrettiamo ad inseguire ogni flebile ticchettio di orologio che scivola inesorabilmente nel vuoto abisso del nulla.

 Gli uomini corrono, ma non cambiano. La mia mano instabile si posa vacillando su ogni persona come per tentare un ultimo affondo alla vita, un ultimo folle tentativo di rimanere aggrappato a qualcuno. Gli uomini corrono, ma non cambiano.  A volte sento di aver trovato la persona giusta per me, mi ripeto convinto che tutto cambierà, che ora si incomincerà qualcosa di nuovo. Una ragazza, un amico , una compagna mai calcolata in precedenza ma che in quel giorno mi svela un sorriso spalancato al mondo in cui è riflesso tutto ciò che desidero in un rapporto. Allora mi gioco tutto. In un breve istante la partita inizia, la posta aumenta così come la paura di perdere ogni cosa. Nell’ombra di quel sorriso inizio a conoscerla, a cercare i punti di unione nei nostri caratteri per sentirmela vicina. Gli uomini corrono, ma non cambiano. Anche io rimango qui: fermo, immobile, stazionario eppure diverso.
 Forse il problema è questo, forse il problema sono io; vado avanti di giorno in giorno forzandomi di comparare ogni uomo che mi si pone davanti con me stesso: cerco qualcuno che in cuore abbia ciò che ho io. In ogni amicizia, tuttavia, non posso fare a meno di notare come nessuno sia come me.
 Spesso si ripete che in cuore abbiamo tutti la stessa domanda, la stessa amorevolmente dolorosa esigenza di felicità. Eppure io non vedo questo negli altri. Andando a fondo in un rapporto, le persone appaiono fondamentalmente immature, o prepotentemente sicure della loro maturità.  

I primi si ritrovano a vivere sulle nuvole, attaccati a mielosi ideali, investendo su parole usate da altri e non interessandosi a ciò che conta in maniera ultima. Favoleggiano di problemi insignificanti, tornando col sorriso a sognare il loro mondo fatuo e rosato, senza temere il giorno in cui si troveranno a singhiozzare in ginocchio su un cumulo si vetri infranti.

Arrivano dunque i maturi, dissipando giudizi, avvalendosi di cicatrici inventate e esperienze rubate. Uomini vuoti, l’insoddisfazione è signora in essi. Ma lo sanno anche loro: nell’ultimo frammento rosso di un cuore nero pulsa la consapevolezza di un errore di fondo, di una fallace certezza di cui vanno fieri. Tutto questo rimorso nei confronti della vita li spinge così ad alternarsi in azioni meschine e taglienti sotterfugi, orditi per invidia più che per una speranza da riscattare.

Vi è, tuttavia, chi non è rapito da questi schemi e, libero da ogni illusione o pregiudizio, tenta ancora di avanzare per la propria strada, per non soccombere poi a nessuno dei due strapiombi. L’attrazione, però, è forte, e la discesa veloce e apparentemente indolore.

Guardo il display del telefonino in attesa di un tuo messaggio, alzo gli occhi verso di te in cerca del tuo sguardo. Tu eri come me, ti avevo trovata. Il tuo cuore è rosso, batte con decisione e coraggio. I tuoi occhi brillano e cercano la verità. Il tuo pensiero è fresco, libero, e non si lascia deviare. Eppure scivoli via. Le persone non cambiano e tu non cambi. Gli uomini corrono e tu, senza accorgertene, scivoli lontana da me, attratta da chi, tristemente, afferma di conoscere la vita, di poter crescere insieme a te, trascinando via, così, la mia ultima speranza.

Io rimango qui: fermo, immobile, stazionario eppure diverso. Non posso più permettermi di affidare a qualcuno il mio cuore. Quando un’amicizia finisce, io stesso mi sento estirpato e sbattuto chissà dove. Ormai rimane poco di rosso del mio cuore. Non nero, non sporco e malvagio, ma bianco, vuoto e spietato. Spietato. Senza pietà. Senza commozione, sentimento o paura. Non cattiveria: solo assenza di amore. E’ inutile tentare qualcosa di nuovo,cercare qualcuno che possa nuovamente afferrarmi l’animo per poi gettarlo via dopo mille illusioni. Io riparto da me, me soltanto. Spietato.

26 dicembre 2010

Il nero è triste, come la realtà. Ma è voglia e speranza.

Notte bianca. La notte è bianca quando la si vuole illuminare a giorno, quando la si vuole riempire di persone, di divertimento e di qualsiasi attenzione ti faccia scorrere adrenalina davanti agli occhi, perché vuoi essere vivo.

Ogni santo sabato sera ricerco quel bagliore febbrile affinché mi guidi attraverso un fine settimana, affinché mi faccia dimenticare lo smarrimento di ore e ore passate sui libri.

E poi ci sono le notti nere. La notte è nera al buio della mia stanza. Una notte di me, me soltanto. Il bello è che all’inizio non voglio, cerco di fare tutto per evitarla. Tento con energica foga, originata dal torpore esasperante dello studio settimanale, di macchinare qualcosa per quel sabato, puntando tutto su ciò che riuscirò ad organizzare.

Ma poi arriva il due di picche dei soliti compagni di brigata e capisco che me ne dovrò stare a casa. E’ sbagliato descrivere quel sabato sera come “obbiettivo”, meglio definirlo “una mia forzata aspettativa” senza l’avverarsi della quale mi sento spento e demoralizzato, quasi come se, ormai, la 
speranza fosse assopita sotto una coperta di lana.

Ed è allora che si gioca tutto: quando mi ritrovo di fronte ad un monitor di luce pulsante, con una lattina in mano e un cellulare che si accende a malapena in fremente attesa sulla scrivania. Anzi sulla sciarpa, perché mi da fastidio sentirlo vibrare. A pensarci è un comportamento davvero stupido: aspetto ore e ore in attesa di un sms che introduca qualche novità nel mio orizzonte e appena ciò accade, quel vrrr vrrrrrrr mi fa subito capire che in fondo quel sms sicuramente non mi avrebbe portato in avanti sul red carpet della felicità. Che scoperta la tecnologia!

E lo stesso vale per il sabato sera: ti prefiggi tanti progetti da adempire disciplinatamente, ma poi con assoluta puntualità va tutto a rotoli. Ed è al culmine di quel bruciore interiore che consuma la serata, che ti accorgi che in fondo non saresti comunque stato felice.

O forse sì, ma di certo nessuno ti impedisce di esserlo anche a casa, da solo.

 Io, per esempio ho voglia di vivere , ma di una voglia che più non si può che mi scaccia il sonno più dell’alcool. E’ comunque una sera alla ricerca del bianco. Ma di quel bianco che contiene tutti i colori. Anche il nero. Soprattutto il nero. Perché il nero è la spinta senza la quale non mi muoverei affatto per raggiungere la luce. Il nero è desiderio di vita.

Di solito la gente pensa che la tristezza e la felicità siano due stanze separate, a volte stai in una, a volte stai in un’altra. Altri ancora pensano che la tristezza sia una corridoio per raggiungere la felicità. Una volta, invece, mi hanno raccontato una terza ipotesi, a mio avviso davvero interessante: la tristezza e la felicità sono la stessa unica stanza, sta a te vederla come vuoi.

Come ci insegna il Piccolo Principe, le cose cambiano a seconda di come le guardi. E mai come in queste sere posso capirlo: il nero, la tristezza, o qualsiasi modo in cui le si voglia chiamare, non sono semplicemente un’automatizzata spinta spasmodica e forzata alla vita, ma sono l’essenza stessa di questo desiderio.

La tristezza è voglia di vivere? Allora io voglio essere triste ogni giorno. E sempre di più.

3 dicembre 2010

Ticchettio stonato

Mi ritrovo fermo a fissare quel bicchiere quasi vuoto. L’ennesimo rimasuglio di una serata ancora più buia. Il vetro si curva linearmente in maniera regolare e perfetta; solo un lieve graffio solca docilmente l’orlo opaco, quasi smerigliato per i tanti lavaggi.
L’aria è calda e consumata. Le luci risplendono debolmente mentre stanche osservano con noia l’accendersi di un’altra notte. Una dopo l’altra le persone si alzano dai tavoli e le chiacchiere diminuiscono d’intensità unendosi all’oblio del locale semivuoto.
Dietro al bancone un ragazzo troppo giovane si concede qualche secondo di pausa stendendo occhiate vitree da un angolo all’altro della sala.
Guardo distratto l’orologio argentato che mi sporge da una manica della camicia: un suo regalo. Il cuore mi pulsa in maniera regolare ma decisa, quasi sincronizzato con la lancetta scura che trafigge il pallido quadrante. Un ticchettio stonato è tutto ciò che mi rimane di lei, mentre il resto scivola via insieme all’ultimo sorso di rum dolciastro. Una goccia rimane in fondo, e provo di nuovo a inclinare inutilmente il bicchiere per farla scomparire, ma non c’è niente da fare. Quella non se ne va, rimanendo invece a incalzare fastidiosamente l’apparente regolarità del bicchiere. Non riuscirò a mandarla giù, per quanto ci possa provare.

Una ragazza è appoggiata con pesantezza al bancone, non molto distante da me. Riesco a vedere il suoi occhi persi nel vuoto, mentre smuove distratta l’oliva affogata nel suo Martini. I capelli sono ricci e scuri, intricati come i sentieri bui di tutta una vita. Un guizzo di luce le attraversa lo sguardo di rado prima di confondersi nuovamente con la monotonia dello stanzone illuminato.
Mi alzo con calma e mi avvicino con flebile sicurezza alla donna. Lei mi guarda senza vedermi accennando un sorriso fasullo. 
Dalla mia bocca escono poche parole. Le necessarie. Le solite. La vedo pensare, ma in maniera sempre più spenta e pallida. Il suo nome è Anna. Mi siedo accanto a lei, e le parole corrono lente e tranquille, non c’è fretta né voglia di correre.

Guardo nuovamente l’orologio, cercando anche questa sera la spinta che mi serve per procedere nella nottata. Sfilo l’orologio mentre ci alziamo dal tavolo. Apro la porta per farla uscire per prima. Staremo da lei questa notte.

Accendo una sigaretta lungo la strada. L’ennesima scintilla di un altro fuoco più morto che vivo. Un fuoco che arderà, almeno questa notte.
Domani non so cosa accadrà. Un altro locale, un altro bicchiere, un’altra Anna.
Tutto scorre in un lancinante ticchettio di un orologio sempre più perso.

22 novembre 2010

Parole semplici gettate a caso, sullo schermo bianco di un Nokia 6300

Tutto è iniziato da un sms di una mia amica: "Come va?". E da un libro, geniale frutto della filosofia Dostoevskijana. Il resto è tutto un rincorrersi di parole, momenti vuoti, esitazioni e persone. Così una movimentata sera d'estate può diventare una riflessione più o meno sensata su quello che accade. Parole semplici e gettate a caso sullo schermo bianco di un Nokia 6300.

A. Come va?


F. Un giorno ci siamo, l'altro giorno non ci siamo più... La vita scorre e di noi resta meno che un ricordo, un melanconico ricordo di qualche amico sonnolento che ormai è più vicino a noi di quanto lo possa essere ai nuovi della vita, quelli che vedono questo frale passaggio umano come una sterminata avventura e, frementi, rimandano tutto al domani. Ma attenzione: del doman non v'è certezza! 
Scusami per queste mie patetiche frasi, gettate  ancora più pateticamente insieme da un povero pensatore, un pensatore romantico però! Non uno stolto disperato, ma bensì un sognatore, pieno di speranze! Sissignori! Speranze magari infantili, magari lievi e tremule come fiabe raccontate ad un bambino, che con gli occhi spalancati assorbe nel sua fresca innocenza guerre fantastiche e fuochi fatui. Ecco! Proprio così è il mio sognatore: vedi, non è colpa sua ma è così. E a lui, intendiamoci, va bene prendere la vita in questo dolce modo, non bisogna compatirlo! Insomma queste mie patetiche frasi ti assicuro che avrebbero una forma bellissima se solo avessi potuto leggertela, se solo avessi potuto imprimerci un tenue soffio dell'entusiasmo che mi possiede un questo attimo di brillantezza. Così perdonami se questi liberi pensieri di una triste mente vagante ti hanno annoiato o ti hanno turbato nella tua tranquilla realtà, ma la vita mi ha preso e non ho potuto contenerla!