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26 dicembre 2010

Il nero è triste, come la realtà. Ma è voglia e speranza.

Notte bianca. La notte è bianca quando la si vuole illuminare a giorno, quando la si vuole riempire di persone, di divertimento e di qualsiasi attenzione ti faccia scorrere adrenalina davanti agli occhi, perché vuoi essere vivo.

Ogni santo sabato sera ricerco quel bagliore febbrile affinché mi guidi attraverso un fine settimana, affinché mi faccia dimenticare lo smarrimento di ore e ore passate sui libri.

E poi ci sono le notti nere. La notte è nera al buio della mia stanza. Una notte di me, me soltanto. Il bello è che all’inizio non voglio, cerco di fare tutto per evitarla. Tento con energica foga, originata dal torpore esasperante dello studio settimanale, di macchinare qualcosa per quel sabato, puntando tutto su ciò che riuscirò ad organizzare.

Ma poi arriva il due di picche dei soliti compagni di brigata e capisco che me ne dovrò stare a casa. E’ sbagliato descrivere quel sabato sera come “obbiettivo”, meglio definirlo “una mia forzata aspettativa” senza l’avverarsi della quale mi sento spento e demoralizzato, quasi come se, ormai, la 
speranza fosse assopita sotto una coperta di lana.

Ed è allora che si gioca tutto: quando mi ritrovo di fronte ad un monitor di luce pulsante, con una lattina in mano e un cellulare che si accende a malapena in fremente attesa sulla scrivania. Anzi sulla sciarpa, perché mi da fastidio sentirlo vibrare. A pensarci è un comportamento davvero stupido: aspetto ore e ore in attesa di un sms che introduca qualche novità nel mio orizzonte e appena ciò accade, quel vrrr vrrrrrrr mi fa subito capire che in fondo quel sms sicuramente non mi avrebbe portato in avanti sul red carpet della felicità. Che scoperta la tecnologia!

E lo stesso vale per il sabato sera: ti prefiggi tanti progetti da adempire disciplinatamente, ma poi con assoluta puntualità va tutto a rotoli. Ed è al culmine di quel bruciore interiore che consuma la serata, che ti accorgi che in fondo non saresti comunque stato felice.

O forse sì, ma di certo nessuno ti impedisce di esserlo anche a casa, da solo.

 Io, per esempio ho voglia di vivere , ma di una voglia che più non si può che mi scaccia il sonno più dell’alcool. E’ comunque una sera alla ricerca del bianco. Ma di quel bianco che contiene tutti i colori. Anche il nero. Soprattutto il nero. Perché il nero è la spinta senza la quale non mi muoverei affatto per raggiungere la luce. Il nero è desiderio di vita.

Di solito la gente pensa che la tristezza e la felicità siano due stanze separate, a volte stai in una, a volte stai in un’altra. Altri ancora pensano che la tristezza sia una corridoio per raggiungere la felicità. Una volta, invece, mi hanno raccontato una terza ipotesi, a mio avviso davvero interessante: la tristezza e la felicità sono la stessa unica stanza, sta a te vederla come vuoi.

Come ci insegna il Piccolo Principe, le cose cambiano a seconda di come le guardi. E mai come in queste sere posso capirlo: il nero, la tristezza, o qualsiasi modo in cui le si voglia chiamare, non sono semplicemente un’automatizzata spinta spasmodica e forzata alla vita, ma sono l’essenza stessa di questo desiderio.

La tristezza è voglia di vivere? Allora io voglio essere triste ogni giorno. E sempre di più.

3 dicembre 2010

Ticchettio stonato

Mi ritrovo fermo a fissare quel bicchiere quasi vuoto. L’ennesimo rimasuglio di una serata ancora più buia. Il vetro si curva linearmente in maniera regolare e perfetta; solo un lieve graffio solca docilmente l’orlo opaco, quasi smerigliato per i tanti lavaggi.
L’aria è calda e consumata. Le luci risplendono debolmente mentre stanche osservano con noia l’accendersi di un’altra notte. Una dopo l’altra le persone si alzano dai tavoli e le chiacchiere diminuiscono d’intensità unendosi all’oblio del locale semivuoto.
Dietro al bancone un ragazzo troppo giovane si concede qualche secondo di pausa stendendo occhiate vitree da un angolo all’altro della sala.
Guardo distratto l’orologio argentato che mi sporge da una manica della camicia: un suo regalo. Il cuore mi pulsa in maniera regolare ma decisa, quasi sincronizzato con la lancetta scura che trafigge il pallido quadrante. Un ticchettio stonato è tutto ciò che mi rimane di lei, mentre il resto scivola via insieme all’ultimo sorso di rum dolciastro. Una goccia rimane in fondo, e provo di nuovo a inclinare inutilmente il bicchiere per farla scomparire, ma non c’è niente da fare. Quella non se ne va, rimanendo invece a incalzare fastidiosamente l’apparente regolarità del bicchiere. Non riuscirò a mandarla giù, per quanto ci possa provare.

Una ragazza è appoggiata con pesantezza al bancone, non molto distante da me. Riesco a vedere il suoi occhi persi nel vuoto, mentre smuove distratta l’oliva affogata nel suo Martini. I capelli sono ricci e scuri, intricati come i sentieri bui di tutta una vita. Un guizzo di luce le attraversa lo sguardo di rado prima di confondersi nuovamente con la monotonia dello stanzone illuminato.
Mi alzo con calma e mi avvicino con flebile sicurezza alla donna. Lei mi guarda senza vedermi accennando un sorriso fasullo. 
Dalla mia bocca escono poche parole. Le necessarie. Le solite. La vedo pensare, ma in maniera sempre più spenta e pallida. Il suo nome è Anna. Mi siedo accanto a lei, e le parole corrono lente e tranquille, non c’è fretta né voglia di correre.

Guardo nuovamente l’orologio, cercando anche questa sera la spinta che mi serve per procedere nella nottata. Sfilo l’orologio mentre ci alziamo dal tavolo. Apro la porta per farla uscire per prima. Staremo da lei questa notte.

Accendo una sigaretta lungo la strada. L’ennesima scintilla di un altro fuoco più morto che vivo. Un fuoco che arderà, almeno questa notte.
Domani non so cosa accadrà. Un altro locale, un altro bicchiere, un’altra Anna.
Tutto scorre in un lancinante ticchettio di un orologio sempre più perso.

22 novembre 2010

Parole semplici gettate a caso, sullo schermo bianco di un Nokia 6300

Tutto è iniziato da un sms di una mia amica: "Come va?". E da un libro, geniale frutto della filosofia Dostoevskijana. Il resto è tutto un rincorrersi di parole, momenti vuoti, esitazioni e persone. Così una movimentata sera d'estate può diventare una riflessione più o meno sensata su quello che accade. Parole semplici e gettate a caso sullo schermo bianco di un Nokia 6300.

A. Come va?


F. Un giorno ci siamo, l'altro giorno non ci siamo più... La vita scorre e di noi resta meno che un ricordo, un melanconico ricordo di qualche amico sonnolento che ormai è più vicino a noi di quanto lo possa essere ai nuovi della vita, quelli che vedono questo frale passaggio umano come una sterminata avventura e, frementi, rimandano tutto al domani. Ma attenzione: del doman non v'è certezza! 
Scusami per queste mie patetiche frasi, gettate  ancora più pateticamente insieme da un povero pensatore, un pensatore romantico però! Non uno stolto disperato, ma bensì un sognatore, pieno di speranze! Sissignori! Speranze magari infantili, magari lievi e tremule come fiabe raccontate ad un bambino, che con gli occhi spalancati assorbe nel sua fresca innocenza guerre fantastiche e fuochi fatui. Ecco! Proprio così è il mio sognatore: vedi, non è colpa sua ma è così. E a lui, intendiamoci, va bene prendere la vita in questo dolce modo, non bisogna compatirlo! Insomma queste mie patetiche frasi ti assicuro che avrebbero una forma bellissima se solo avessi potuto leggertela, se solo avessi potuto imprimerci un tenue soffio dell'entusiasmo che mi possiede un questo attimo di brillantezza. Così perdonami se questi liberi pensieri di una triste mente vagante ti hanno annoiato o ti hanno turbato nella tua tranquilla realtà, ma la vita mi ha preso e non ho potuto contenerla!

15 novembre 2010

Sere bianche

Questo stralcio l'ho ripescato nei meandri del pc, quindi magari è un po' diverso dagli altri dal punto di vista stilistico. Comunque gli ho dato una breve revisione ;)

Ci sono certe sere in cui sei triste per una giornata andata male, ci sono certe in cui sei triste per un amore non corrisposto, e poi ci sono certe sere in cui sei triste e basta. E incolpi il mondo perché ti ha abbandonato, perché in questo momento non ti sta dando abbastanza, o perlomeno non ti sta dando ciò di cui senti davvero il bisogno. E il bello è che naturalmente non sai nemmeno di cosa hai davvero bisogno, rimanendo all'erta in attesa di uno sfuggevole senso di completezza. 

Così il giovane sognatore vaga ancor non pago di riandare i sempiterni calle, come la luna leopardiana. Cammina, osserva, cercando febbrilmente un appiglio qua e là, una rapida illusione di certezza a cui aggrapparsi per rimanere al sicuro almeno per un istante in mezzo a questo mare di infidi dubbi. 
Egli apre gli occhi ritrovandosi come al solito disteso sul letto a fissare il soffitto bianco, un bianco che contiene tutti i colori. Non bianco come quelle gelide maschere carnevalizie che, senza alcuna espressione, senza un briciolo di vita, nascondono pretenziosamente il viso ad un ragazzo. Non quel bianco che circonda l'iride degli occhi; un bianco meschino e futile che sembra voler contenere ed imprigionare una bellezza illimitata e sfavillante del nostro occhio, generando ancora più spavento che quello della maschera: un bianco che non si accontenta di coprire la vita, ma, assai più malvagiamente, la lascia intravedere all'interno di sé, sovrastandola e contenendola senza alcuna pietà o restrizione. Tu sai che la bellezza c'è, ma essa non può uscire, non può gridare al mondo la sua grandiosa presenza, rinchiusa com'è tra quel bianco ubriacato di crudele insensatezza. 
Il pensatore si trova di fronte un soffitto bianco come la neve, bianco come il piccolo, lucido riflesso che timidamente si affaccia dalla parte più interna del nostro occhio quando si fissa qualcosa di meraviglioso e straordinario, qualcosa che risveglia nel nostro animo quella bellezza assopita in mezzo al bianco-crudele, una bellezza che, magari, anche soltanto per la durata di un battito di ciglia, riesce ad abbracciare l'intero universo attraverso quel fantastico sfavillio che ha trasportato il pensatore nel suo attento viaggio. 
Quella sera può essere colmata solamente da quel riflesso bianco. Il ragazzo sorride quando comprende il mistero: quello straordinario luccichio nell'iride è un colore tutto nuovo, che raccoglie amorevolmente tutti gli altri, e allo stesso tempo non ne raccoglie nessuno. Quel colore è ciò di cui è fatta la meraviglia. Quel colore è ciò di cui sono fatte le stelle.

10 novembre 2010

Momento di lei

Luci, clacson, rumore, gente che va e gente che viene. Musica per le mie orecchie. Spengo il motorino per godere la frenesia di tutto quel movimento, rimanendo fermo sulla soglia della notte inebriante. Fermo, impassibile e sull’attenti, in rispettoso riguardo dell’impenetrabile intrico di guizzi di vita che esplode nella frizzante aria del crepuscolo. 
Momento di sogni, momento di giochi, momento di fuochi fatui e infide illusioni. Momento di lei. Impetuosa come il fuoco, ma silenziosa come il più leggero dei venti che nonostante la sua incorporeità travolge in un affanno senza limite ogni particella di ciò che sfiora. Ogni sguardo, ogni respiro è catturato da quel magico spettro di luci che in lei trova il massimo splendore. Misteriosa come la notte, ma semplice come la luce: lei, con un fresco sorriso, accoglie e accompagna con fragile dolcezza ad uno ad uno questi fremiti di cuore che sembrano dedicarle ognuna delle limpide stelle che tinteggiano un poco alla volta il manto nero della notte. 
La sua presenza mi strugge di un dolore che amo, il suo fuoco mi consuma di una fiamma che desidero, il suo tocco mi annienta di una ferita che bramo. 
Una lacrima di sangue sgorga in profondità dal mio cuore in estasi. Il piacere mi assale, il desiderio cresce, persino l'amore riconosce però che non si può possedere una tale grandezza. La fermezza del mio sguardo cede a contatto con il suo, passo dopo passo sono costretto ad abbassare la visiera smerigliata di goccioline come a proteggere i miei occhi quasi indegni di così tanta luce. 
Le porgo il casco senza proferire parole, lei scherza indossandolo e cerca il mio sorriso schernitore. Un sorriso forzato dalle mie guance che non scalfisce minimamente il suo splendore, ma si rivolta bensì al suo perso fattore. 
Lei sale sul motorino, dietro di me, con quella semplicità che caratterizza visceralmente ogni suo gesto più importante. Sento due mani poggiarsi debolmente ai miei fianchi, mentre un tremolio mi risale gelido per tutta la schiena. 
Vorrei che le sue dita mi stringessero con forza fino a lacerarmi l'anima, già perdutamente straziata in milioni di stralci differenti, accomunati tutti dall'amore per lei. 
Respiro con forza, mettendo in moto il cinquantino. Sento invadermi di nuovo dalla frenesia della città, un movimento agitato di cui io non riesco a far parte. Ogni fanale, ogni motore si muove verso qualcosa, nell'attesa di una vivida speranza di felicità. 
Il mio muovermi non può possedere nulla di questa ricerca. La mia felicità l'ho alle spalle, mi sfiora appena. Ma non è raggiungibile nemmeno con il più epico dei viaggi.

8 novembre 2010

Incavo di una zucca ormai appassita

Quanti petali ha un fiore? Ogni fiore è un universo a sé, distinto con tenue imperiosità da qualsiasi altro della stessa specie. 
Eleonora meditava tra sé passeggiando verso casa. L’aria fremeva di pavida tensione, pur presente in ogni più insignificante particolare del paesaggio. Il terreno tutt’intorno si chinava lievemente per formare dolci specchi d’acqua che increspavano con leggerezza il colore monotono del cemento intorno alla strada.
Il tragitto era sempre lo stesso che la ragazza aveva compiuto costantemente ogni giorno, ma per la prima volta l’intera atmosfera risentiva gravemente della caducità autunnale come se fino ad allora le foglie cadute fossero state un semplice tintinnare di coriandoli variopinti che rendevano quasi più allegre le giornate. 
Quel martedì, pomeriggio inoltrato, di allegro c’era ben poco.

Un guizzo arancione le colse lo sguardo spingendola a fronteggiare la casa che aveva sulla sinistra. Una zucca, ormai accasciata su se stessa, adornava pesantemente l’angolo dei gradini. 
Eleonora si era sempre chiesta perché la festa dei santi e quella dei defunti erano così vicine fra loro, quasi a simboleggiare un collegamento sottile tra persone che sembrano non far più parte del mondo come lo intendiamo noi. 
La vita in terra, finendo, pare aver trascinato con sé nelle tenebre perenni ogni briciolo di ricordo di bene che defunti e santi hanno portato nelle nostre esistenze. È rimasta di loro solo una festa per bambini, che tristemente svanisce anch’essa all’interno dell’incavo di una zucca ormai appassita. Un vuoto ancor più denso e spaventoso delle luci dei ceri dei defunti che un giorno dopo l’altro si spengono alle finestre delle case di chi ancora crede, o finge di credere, nella memoria di un suo caro.

Gioite bambini: anche quest’anno è arrivato Halloween.


5 novembre 2010

Tema per casa: "Testo argomentativo: penna nera o penna blu?"

Già nel VII secolo, per opera del filosofo Anassimandro, era stata descritta l’epica lotta tra gli opposti: tra il bene e il male, il giorno e la notte, e naturalmente il bianco e il nero. Perché allora ostinarsi a riempire cocciutamente intere pagine di quaderno di quegli scarabocchi azzurrini che quasi sbiadiscono a contatto con la candida carta? Anche la natura ce lo insegna: tutti sanno di certo che le seppie secernono un inchiostro nerastro! Dunque chi siamo noi, giovani studenti, per opporci a questo basilare principio, acquistando penne blu? Vogliamo forse dichiarare guerra al Creatore?
No, signori, su questioni di così grande importanza non si può rimanere in silenzio, occorre bensì mettere nero su bianco! Ecco, anche i proverbi dimostrano solennemente la perfezione di una dignitosissima penna nera.
Non voglio nemmeno pensare a coloro che di certo obietteranno con altri detti del tipo: “E’ difficile vedere un gatto nero in una stanza buia”, quest’asserzione si confuta già da sola: la stanza non è affatto buia! Qui si tratta della scrittura su un foglio bianco, dunque non vi è niente di meglio che un inchiostro del colore opposto.
Sorge dunque legittima l’obiezione: “La professoressa corregge in rosso, perciò il blu si distingue meglio!”. Certo, su ciò siamo tutti d’accordo, ma chissà quanta sofferenza per i nostri poveri occhi essere costretti a sopportare ogni giorno il violento bisticciare tra due inchiostri così accesi e diversi.
Il rosso e il nero, invece, vanno perfettamente a braccetto: il colore della passione, dell’amore rischierebbe drammaticamente di deconcentrare l’alunno distratto se non fosse per il pacato ma risoluto intervento del nero.
Vogliamo chiedere un parere ad illustri letterati quali Manzoni o Leopardi? Vi sfido a trovare l’immagine di un loro manoscritto stilato in inchiostro blu: la motivazione forse è che non l’avevano ancora inventato, ma non mi risulta di certo che questa “gravissima lacuna” abbia loro impedito di deliziarci con elaborati componimenti di altissimo livello.
Dunque mentre invece la lotta tra contrari quali il nero e il bianco rimarrà per sempre aperta e combattuta, quest’oggi possiamo decretare la vittoria dello scontro tra altri due contendenti, che come abbiamo visto è già dimostrata in partenza. Qualcuno ne potrà rimanere deluso, ma sull’oggettività della questione c’è poco da obiettare, ce lo grida anche il rugby: i nostri Azzurri sono sempre sconfitti dagli All Blacks.

3 novembre 2010

Ama e fa' ciò che vuoi

Sia che tu taccia, taci per amore;

sia che tu parli, parla per amore;

sia che tu corregga, correggi per amore;

sia che perdoni, perdona per amore;

sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene.

Sant'Agostino

1 novembre 2010

Stralci di Luce

E’ incredibile come l’umore possa cambiare a seconda delle condizioni meteorologiche. E’ come se il cielo volesse decidere il nostro modo di vedere la giornata. Anzi è più come se noi vedessimo la giornata attraverso il cielo. Ogni riflesso, ogni ombra appare in maniera diversa e anche una cena con gli amici può diventare un funereo ritrovo.
 E poi tu inizi a diventare scontroso, triste e temporalesco. Il peggio sono le nuvole, quando ancora non piove. Tutto è fermo ad attendere qualcosa di spiacevole, non si sa se accadrà o no, ma l’attesa snervante rimane. 
E il giovane pensatore lo sa che sia col sole che senza la giornata scorre più o meno ugualmente, ma quello spazio di mondo che intravede dalla finestra è come filtrato da questa possente tensione di attesa che irrigidisce tutta l’atmosfera. A volte capita che non cominci a piovere, e il ragazzo distrattamente sorride immerso nei compiti mentre qualche stralcio di luce inizia timidamente a farsi strada. Ma la nuvola persiste! Magari poi scomparirà magicamente durante la notte, ma lì per lì rimane a far pendere sopra il giardino quel senso di non so cosa che ti lascia l’amaro in bocca come se mancasse qualcosa che non sai ben definire.
 Altri giorni invece le nuvole si anneriscono e allora la tensione si fa sempre più forte e densa fino ad esplodere in miliardi di pezzi, miliardi di goccioline iridescenti. La testa ti dice che adesso è il momento di massima tristezza, è il momento di unirsi allo scoraggiato pianto del cielo per offrirgli solidarietà e conforto. Ma il cuore spinge ostinatamente nella direzione opposta; tutta la tristezza accumulata nella tensione precedente al temporale, sembra ora svanire, come lavata via da quella forte pioggia. E il giovane pensatore rimane confuso, non sapendo bene come reagire di fronte a questa esplosione acquosa che scuote ogni particella dell’universo. Del suo universo. Quello che può scorgere dalla sua camera, quell’universo che, nonostante i limiti lignei della finestra pare ad ogni modo infinito e sovrumano. Il tempo va, l’ansia aumenta e come il cielo, alla fine esplode. Ma solo immerso in questa triste angoscia il ragazzo riesce a ritrovare quella spinta profonda che lo obbliga ad alzare gli occhi. Il sole, imponente, ha riaffermato il suo potere e ripreso il suo posto al centro della distesa azzurrina, incoronato da un lussuoso arco iridescente. Solo qualche nuvola temeraria osa farsi vedere in lontananza, per il resto niente sfida quella tanto agognata serenità. 
C’è chi dice che solo chi va a fondo può riemergere, soltanto chi cade può rialzarsi. Non sono del tutto d’accordo, non devi sempre arrivare al peggio per poi poter tornare alla felicità. Ma spesso quando hai sperimentato la vera tristezza, riesci poi a godere pienamente della letizia; più il temporale è buio e forte e ventoso, più il sole tornando a splendere sarà lucente e vigoroso e caldo. Può capitare che al centro della tempesta si possa dimenticare la luce della felicità e che questa appaia disperatamente irraggiungibile; in quel momento tenete a mente queste parole: il sole si riaffaccia oltre ogni tempesta della vita. Sempre.

28 ottobre 2010

E' giunta l'ora

Una goccia lo colpisce. Un rapido brivido di freddo si insinua con vigore tra le scapole, finendo con lo scontrarsi con il colletto della maglia. Il giovane pensatore era intento a ripetere mentalmente le pagine di italiano lette frettolosamente nel primo pomeriggio. Correre serve anche a quello, a ripassare ciò che hai studiato, o che perlomeno hai “tentato di studiare”. Di solito al nostro ragazzo la corsa serve a pensare; un veloce e incalzante alternarsi di piedi scandisce il suo pensiero e i suoi respiri sempre più dolcemente affannosi lo spingono ad una meta sempre più vicina. In realtà una meta non c’è, il ragazzo continuerà finché la voglia non lo abbandonerà, o più probabilmente finché le gambe non cederanno.

Ma la gelida goccia frena la sua anestesia, e cambia il corso impetuoso del suo pensare. L’estate è finita. Sì, il ragazzo lo sapeva già che non era più il tempo del mare e del divertimento, ma era stato un passaggio così graduale e scontato che non lo aveva condotto pienamente nella mentalità autunnale. Invece dopo quell’intervento acquoso inizia a guardarsi intorno, scoprendo che velocemente migliaia di altre innocenti goccioline colpiscono ticchettanti ogni particolare del paesaggio, come per ricordare ad ogni albero, ad ogni granello di asfalto, ad ogni stelo d’erba che il momento è giunto. Come se bussassero frettolosamente ad ogni porta esclamando: è giunta l’ora! E’ giunta l’ora del placido autunno.

26 ottobre 2010

Zero assoluto

Sento freddo. Un gelo ripercorre le mie vene dall’alto in basso senza un ordine preciso. Non so da dove provenga, fuori c’è il sole anche se sta tramontando e i termosifoni sono accesi. Non è nemmeno quel freddo che ti coglie prima delle interrogazioni, quel brivido misto ad agitazione che non presagisce nulla di buono. No, non c’è nessuna interrogazione nel mio programma della serata, anzi non ho niente in programma. Il gelo è dovuto al vuoto. Non è nulla, è solo assenza di calore. Come la tristezza è assenza di felicità. E’ rincuorante pensare che non esistano la tristezza, la fame, la malattia, ma siano solo mancanze di qualcosa d’altro.

Ma fatto sta che è freddo: non sarà nulla, ma i brividi non finiscono lo stesso. Non so cosa fare e anche se lo sapessi non lo farei, questo gelo mi impedisce ogni mossa, ogni tentativo di riprendere un qualsiasi rapporto con realtà. Tutto si muove intorno a me, tutto va avanti con lo stesso vorticoso ritmo. Un ritmo che trascina ogni corpo nella sua morsa vertiginosa. Ogni corpo meno che me: non mi va di ballare, a volte credo di non esserne affatto capace. Sono fermo ad attendere qualcosa che non arriva. “Un treno che non passa” dice una canzone, “nell’ansia dell’attesa di un miracolo” ripete un’altra. Si può definire in tanti modi perché non è nulla, non c’è, per questo è vuoto. Per questo è freddo.

Persino scrivere diventa un peso, un battere obbligato su tasti senza colore. Vuoti anche loro. E non è un argine che impedisce una fluente esplosione di lettere: un argine viene sempre distrutto, non può mai sovrastare la forza del fiume. E’ il gelo che blocca tutte le parole impedendo che quel fiume possa mandare avanti la flebile speranza di una tremula gocciolina. Magari sotto la superficie l’acqua si muove, ma tutto appare fermo se visto dall’esterno, senza neanche un brivido di vento.

E’ come la paura. La paura non è semplice mancanza di sicurezza, è qualcosa di più. La paura del vuoto è tangibile, terribilmente fredda e tangibile; immobilizzante gelida  angoscia che blocca ad uno ad uno ogni tuo segno vitale, annullando la tua essenza. La paura del vuoto è nient’altro che vuoto allo stato puro. La temperatura è pari a 0, ma non quello del congelatore e nemmeno quello dello spazio: quelli sono infantili zero relativi. Il vuoto è l’unico 0 reale, lo zero assoluto. E io sento freddo, soffocato in questa ghiacciata morsa di assoluta paura.


Canzoni citate:

25 ottobre 2010

Prendimi - Giovanni Allevi



Per chi volesse sapere il significato del brano, basta chiudere gli occhi e lasciar correre il pensiero. Ecco trovato il significato.

23 ottobre 2010

Foglio bianco. Lettere nere.

Foglio bianco. Lettere nere. Freddo, vuoto e sterile, un’insignificante frammento di albero prende vita. Ho sentito qualcuno lamentarsi della deforestazione, di questi impavidi combattenti del regno vegetale, che uno ad uno, cadono al suolo, recisi alla base della loro esistenza da umani senza scrupoli. Si, capisco perfettamente il problema ambientale, ma come essere d’accordo con “Ogni albero che cade, è un vita che finisce”? Una vita che finisce? Una vita che comincia! Un tronco, anonimo e ruvido pezzo di legno, diventa per la prima volta unico. Magari l’albero aspettava da sempre quel momento, lui era li per questo, per creare dalla sua essenza candidi fogli cartacei. Sì, anonimi  pure questi! Rispettabilissimi rettangoli bianchi impilati sotto ad una copertina colorata. Immaginatevi un attimo soltanto quanto si pavoneggi quella stizzosa copertina! Eh si, lei è la prima e l’ultima di tutto il quaderno, che protegge e identifica tutti i fogli al suo interno. Senza di lei ogni quaderno sarebbe uguale all’altro, non si potrebbero distinguere! 
Che crudele mancanza sarebbe per noi poveri studenti, intenti ogni sera, con gesti svogliati e malinconici, a riporre strumenti di tortura all’interno di una sacca della Napapijri. Gesto malvagio, malvagissimo! Costruire da soli ciò che nel giorno seguente sarà il tuo peggior nemico! Un giorno inventerò un robot-imbastitore-di-zaini così risolvo il problema. E’ un po’ come Gesù al Calvario che si portava faticosamente sulle spalle indolenzite, lo strumento che lo avrebbe condotto alla morte, ma Egli, come sempre, è stato molto più furbo di noi e alla fine si è fatto trasportare la croce da un altro al posto suo.
Ma ritorniamo alla nostra supergasata copertina, che troviamo tutta impettita a dar le spalle agli altri fogli senza identità, sempre attenta a far sì che un’orecchia nell’angolo non sciupi il suo manto liscio. La penna si avvicina. La copertina fa la preziosa, sa di essere la migliore, sa che l’onore di essere decorata spetterà a lei. Invece quel lucente globo azzurrino posto al termine di una freccia metallica sorretta da tre dita grassocce, scarta improvvisamente di lato dirigendosi verso il tavolino, mentre l’altra mano dello scrittore, che era rimasta in silenzioso agguato, afferra rudemente la copertina e la alza mentre, stupita ma impotente, cerca di attirare l’attenzione in qualche inutile maniera, poco prima di ritrovarsi con il naso contro al tavolino, cosciente che la graziosa penna sta accarezzando, anzi graffiando delicatamente uno di quegli stupidi fogli bianchi. Ma il foglio bianco è umile, non è decorato da scritte cubitali come lo è invece l’antipatica copertina. Lui sapeva fin dall’inizio che sarebbe stato il prescelto, e non si è mai offeso di fronte alle sciocche cattiverie della sua compagna colorata, sapeva fin dall’inizio che sarebbe toccato a lui il gratificante compito di essere reso dalla penna unico al mondo, non come la copertina, che ha tante altre copie sparse per i negozi, tutte altrettanto snob e permalose come quella appena conosciuta da noi. No, il nostro foglio sarà davvero unico, non se ne troverà uno in tutto il mondo esattamente identico a lui. L’inchiostro bluastro dell’inesperto scrittore lo ha lanciato a grandi balzi verso ciò per cui era stato fatto, verso il suo destino ultimo. 
E questo, l’albero ormai caduto, lo sapeva da sempre.

Ma io ho degnamente risolto questa epica problematica ambientale alla radice: scrivo col PC.

13 settembre 2010

Brivido di fine estate

Ed eccolo qua il nostro giovane pensatore, ormai giunto con poca scelta all'ultima notte estiva, l'ultima notte viva. Sì, perché le notti autunnali in fondo non sono che un buio ritaglio di tempo tra un giorno e un altro, usate per lo più per riposarsi e separare equamente i lenti giorni di settembre. Quelle non sono che notti nere, notti vuote e prive di ogni intenzionalità dell'addormentato che si ritrova in balia dei proprio pensieri notturni. 

D'estate la notte è decisamente bianca. Bianca come la luce. Sono notti che ogni uomo cerca di illuminare a giorno, perché secondo lui solo di giorno si vive. Da un certo punto di vista è vero: soltanto da svegli si riesce ad essere presenti in ogni circostanza della nostra variopinta realtà. Ma di notte ci sono le stelle. Loro ci sono sempre, anche in una gelida nottata invernale, ma se ne stanno scomodamente riposte all'interno di grigiastri cumuli di nuvole. Mentre al giungere dell'estate esse ricompaiono tutte assieme, facendo finta di niente, come se non si fossero mai assentate. 
E così capita che tu un giorno alzi distrattamente gli occhi e le trovi là, immobili e silenziose, fisse nel ruotare immortale del meccanismo celeste. 

Agosto, notte inoltrata: il giovane pensatore sa perfettamente che le stelle sono lì, come ogni sera, ma alza ugualmente lo sguardo, come ad avere una conferma, un barlume di speranza che anche quella notte è fatta di luce, pura luce che lo rende vivo e cosciente, anche più che con quella solare.
Il ragazzo è giunto all'ultima luce dell'anno, l'ultima prima di tornare a quel lungo e spento ciclo che lo cullerà con malinconica dolcezza fino al prossimo risplendere sfavillante del giugno seguente. 
Questa è l'ultima notte viva, l'ultima notte bianca. Le stelle ci saranno anche domani..e dopo domani..e il giorno dopo ancora..ma non saranno più le stesse, saranno solo piccoli fari che indicano che un'altro giorno è trascorso.  
Così il nostro pensatore rivolge una fulgida e intensa occhiata a quel brivido sfavillante ora più vicino che mai, così vicino come lo può essere solo oggi, al magico capolinea di un'altra splendida estate.

11 agosto 2010

Ho incontrato una cometa

Ho incontrato una cometa. 
Un solo secondo, quello sfavillio ha infranto con violenza la durezza dei miei occhi, spezzando ogni mia inutile resistenza. Puoi velare il tuo sguardo quanto vuoi, ma la bellezza arriva sempre, una bellezza che aspettava da sempre di travolgerti. 
Una frammento di roccia infuocato. Una cometa. Viaggiava da secoli nel vuoto, sola e spaventata, ma con una missione. Doveva incontrare me, trasmettermi in un solo istante tutta l'infinità di quel suo viaggio centenario. 
La cometa ha incontrato me.