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26 dicembre 2010

Il nero è triste, come la realtà. Ma è voglia e speranza.

Notte bianca. La notte è bianca quando la si vuole illuminare a giorno, quando la si vuole riempire di persone, di divertimento e di qualsiasi attenzione ti faccia scorrere adrenalina davanti agli occhi, perché vuoi essere vivo.

Ogni santo sabato sera ricerco quel bagliore febbrile affinché mi guidi attraverso un fine settimana, affinché mi faccia dimenticare lo smarrimento di ore e ore passate sui libri.

E poi ci sono le notti nere. La notte è nera al buio della mia stanza. Una notte di me, me soltanto. Il bello è che all’inizio non voglio, cerco di fare tutto per evitarla. Tento con energica foga, originata dal torpore esasperante dello studio settimanale, di macchinare qualcosa per quel sabato, puntando tutto su ciò che riuscirò ad organizzare.

Ma poi arriva il due di picche dei soliti compagni di brigata e capisco che me ne dovrò stare a casa. E’ sbagliato descrivere quel sabato sera come “obbiettivo”, meglio definirlo “una mia forzata aspettativa” senza l’avverarsi della quale mi sento spento e demoralizzato, quasi come se, ormai, la 
speranza fosse assopita sotto una coperta di lana.

Ed è allora che si gioca tutto: quando mi ritrovo di fronte ad un monitor di luce pulsante, con una lattina in mano e un cellulare che si accende a malapena in fremente attesa sulla scrivania. Anzi sulla sciarpa, perché mi da fastidio sentirlo vibrare. A pensarci è un comportamento davvero stupido: aspetto ore e ore in attesa di un sms che introduca qualche novità nel mio orizzonte e appena ciò accade, quel vrrr vrrrrrrr mi fa subito capire che in fondo quel sms sicuramente non mi avrebbe portato in avanti sul red carpet della felicità. Che scoperta la tecnologia!

E lo stesso vale per il sabato sera: ti prefiggi tanti progetti da adempire disciplinatamente, ma poi con assoluta puntualità va tutto a rotoli. Ed è al culmine di quel bruciore interiore che consuma la serata, che ti accorgi che in fondo non saresti comunque stato felice.

O forse sì, ma di certo nessuno ti impedisce di esserlo anche a casa, da solo.

 Io, per esempio ho voglia di vivere , ma di una voglia che più non si può che mi scaccia il sonno più dell’alcool. E’ comunque una sera alla ricerca del bianco. Ma di quel bianco che contiene tutti i colori. Anche il nero. Soprattutto il nero. Perché il nero è la spinta senza la quale non mi muoverei affatto per raggiungere la luce. Il nero è desiderio di vita.

Di solito la gente pensa che la tristezza e la felicità siano due stanze separate, a volte stai in una, a volte stai in un’altra. Altri ancora pensano che la tristezza sia una corridoio per raggiungere la felicità. Una volta, invece, mi hanno raccontato una terza ipotesi, a mio avviso davvero interessante: la tristezza e la felicità sono la stessa unica stanza, sta a te vederla come vuoi.

Come ci insegna il Piccolo Principe, le cose cambiano a seconda di come le guardi. E mai come in queste sere posso capirlo: il nero, la tristezza, o qualsiasi modo in cui le si voglia chiamare, non sono semplicemente un’automatizzata spinta spasmodica e forzata alla vita, ma sono l’essenza stessa di questo desiderio.

La tristezza è voglia di vivere? Allora io voglio essere triste ogni giorno. E sempre di più.

3 dicembre 2010

Ticchettio stonato

Mi ritrovo fermo a fissare quel bicchiere quasi vuoto. L’ennesimo rimasuglio di una serata ancora più buia. Il vetro si curva linearmente in maniera regolare e perfetta; solo un lieve graffio solca docilmente l’orlo opaco, quasi smerigliato per i tanti lavaggi.
L’aria è calda e consumata. Le luci risplendono debolmente mentre stanche osservano con noia l’accendersi di un’altra notte. Una dopo l’altra le persone si alzano dai tavoli e le chiacchiere diminuiscono d’intensità unendosi all’oblio del locale semivuoto.
Dietro al bancone un ragazzo troppo giovane si concede qualche secondo di pausa stendendo occhiate vitree da un angolo all’altro della sala.
Guardo distratto l’orologio argentato che mi sporge da una manica della camicia: un suo regalo. Il cuore mi pulsa in maniera regolare ma decisa, quasi sincronizzato con la lancetta scura che trafigge il pallido quadrante. Un ticchettio stonato è tutto ciò che mi rimane di lei, mentre il resto scivola via insieme all’ultimo sorso di rum dolciastro. Una goccia rimane in fondo, e provo di nuovo a inclinare inutilmente il bicchiere per farla scomparire, ma non c’è niente da fare. Quella non se ne va, rimanendo invece a incalzare fastidiosamente l’apparente regolarità del bicchiere. Non riuscirò a mandarla giù, per quanto ci possa provare.

Una ragazza è appoggiata con pesantezza al bancone, non molto distante da me. Riesco a vedere il suoi occhi persi nel vuoto, mentre smuove distratta l’oliva affogata nel suo Martini. I capelli sono ricci e scuri, intricati come i sentieri bui di tutta una vita. Un guizzo di luce le attraversa lo sguardo di rado prima di confondersi nuovamente con la monotonia dello stanzone illuminato.
Mi alzo con calma e mi avvicino con flebile sicurezza alla donna. Lei mi guarda senza vedermi accennando un sorriso fasullo. 
Dalla mia bocca escono poche parole. Le necessarie. Le solite. La vedo pensare, ma in maniera sempre più spenta e pallida. Il suo nome è Anna. Mi siedo accanto a lei, e le parole corrono lente e tranquille, non c’è fretta né voglia di correre.

Guardo nuovamente l’orologio, cercando anche questa sera la spinta che mi serve per procedere nella nottata. Sfilo l’orologio mentre ci alziamo dal tavolo. Apro la porta per farla uscire per prima. Staremo da lei questa notte.

Accendo una sigaretta lungo la strada. L’ennesima scintilla di un altro fuoco più morto che vivo. Un fuoco che arderà, almeno questa notte.
Domani non so cosa accadrà. Un altro locale, un altro bicchiere, un’altra Anna.
Tutto scorre in un lancinante ticchettio di un orologio sempre più perso.