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27 febbraio 2011

Elisabetta

Scritto per il compleanno di Elisabetta C.


C’era una volta una ragazza di nome Elisabetta. Non era una principessa, non aveva la bacchetta da fata, e non era nemmeno dotata dei i poteri magici di una maga, ma era dolce, intelligente, simpatica e rifulgente di tante buone qualità. Quando era piccola, il buon padre le aveva dato in dono un magnifico flauto di argento, strumento di un’eleganza e una leggiadria straordinarie, dal suono eccelso e incantato. Esso era assai complicato da suonare e nelle mani di un inesperto non era più che un tubo di metallo (tra l’altro il padre stesso di Elisabetta produceva tubi nella sua modesta bottega, ma questa è un’altra storia). La giovane quindi, si era esercitata con costanza e dedizione per imparare a suonare il prezioso strumento e a quindici anni era ormai diventata un’abilissima suonatrice, la migliore in tutto il reame di Pesaro. Così la ragazza trascorreva serenamente le sue giornate tra la scuola, gli amici e le lezioni di flauto.

Un cattivo giorno però, dopo che Elisabetta compì il suo sedicesimo compleanno, accadde che una strega malvagia si trasformò in una giovane mendicante per ingannare l’innocente ragazza. I capelli dell’oscura signora erano chiari, costellati dai riflessi di una luce fredda e sinistra, mentre gli occhi celesti erano vitrei e agghiaccianti, segno di una crudeltà profonda e inesauribile che mai poteva trovare soddisfazione. La perfida strega era invidiosa della semplicità con cui Elisabetta riusciva a conquistare il cuore di tutta la città, così, attirandola in una trappola attraverso il proprio travestimento, riuscì a catturare la giovane, che mossa a compassione si era avvicinata alla mendicante che invocava flebilmente aiuto.

La ragazza dunque venne rinchiusa nell’inespugnabile dimora della strega, un luogo infido nella sua maestosità, costantemente sorvegliato da creature invincibili e mostruose. Elisabetta fu rinchiusa in una piccola stanza, in cui l’unico e debole punto di illuminazione era una finestrella piccola e troppo alta per la giovane, che spaventata si stringeva in un angolo della cella piangendo tristemente della dura sorte toccatale.

La strega, impietosita dalle lacrime della ragazza, le concesse di tenere con sé il flauto d’argento cosicché le giornate nella segreta trascorressero un po’ più liete. Elisabetta quindi ogni giorno si dedicò al suono del suo amato strumento e quando terminarono le canzoni da eseguire, né compose di nuove, bellissime, e tutti i passanti si commuovevano al sentire queste armonie che infondevano in ciascuno l’amarissima nostalgia della povera giovane.

La storia della triste fanciulla imprigionata in un palazzo ostile riecheggiava di valle in valle, di città in città e giunse fino alle orecchie di un giovane principe, che spinto da questi racconti, decise di mettersi in viaggio per udire lui stesso il suono della dolce flautista. Quando arrivò al palazzo, capì immediatamente che nessuna descrizione tra quelle che aveva udito poteva esprimere cosa in realtà fosse quell’armonia. Dall’alta finestrella proveniva una melodia semplice e nostalgica, indifferente a qualsiasi regola stilistica o formale, animata di una propria vita che rifluiva negli uditori direttamente dal cuore di Elisabetta. Le note, precise nella loro fuggevole rapidità, narravano di terre sconosciute, di profumi mai sentiti e di  fuochi d’amore grandiosi seppur romantici e gentili. Il principe provò nel più profondo dell’animo un’immensa tenerezza che non avrebbe potuto soffocare neppur fuggendo in capo al mondo.

Ostinato a salvare la fanciulla, il giovane cercò un qualsiasi modo per entrare all’interno del fosco edificio, ma ben presto si rese conto che nulla poteva fare contro i mostruosi servitori della strega: comprese perciò di dover entrare con l’inganno. Favorito dalla propria posizione nobiliare, si presentò alla porta della strega, e con tutta la sua arte di corteggiatore, chiese in mano la perfida signora. Questa, lusingata dalla richiesta del futuro re, non esitò ad accettare e fu stabilita in fretta la data delle nozze.
Il principe però fu velocemente catturato dalla travolgente bellezza della strega dai capelli chiari, e in quello stato assai simile all’ipnosi, si dimenticò ben presto della fanciulla imprigionata nelle segrete e si concentrò sull’imminente matrimonio.

Presto arrivò la data delle sontuose nozze, una cerimonia ricchissima e sfarzosa in cui però non c’erano invitati in quando la malvagia donna non voleva condividere con nessuno ciò che era suo. Proprio nel mezzo del matrimonio, si percepì un debole suono  di flauto, che giunse lesto alle orecchie del principe, infrangendo con veemenza l’oscuro incanto nel quale egli era caduto. Con estrema velocità il giovane estrasse la spada e la conficcò nel cuore della strega, che naturalmente non si aspettava un tale attacco; assieme ad ella scomparvero in un solo istante tutti i temibili mostri e il principe si diresse con prontezza alla cella da cui proveniva la triste melodia.

Una volta entrato, scorse seduta sul pavimento la fanciulla più splendida che avesse mai visto; era di una bellezza diversa da quella della strega, infatti Elisabetta non lo estraniava affatto dal proprio pensiero, ma bensì colorava attraverso il suo magnifico aspetto, tutte le particelle della realtà del principe, rendendole più vere ed interessanti. La pelle della giovane flautista era candida come la neve, risaltante in maniera perfetta e ordinata sui capelli folti e neri che le ricadevano nobilmente sulle esili spalle. Gli occhi si schiusero un istante dopo che la porta della cella venne aperta, e il principe non poté fare a meno di cadere in ginocchio, trafitto da tanta meraviglia. Essi erano scurissimi, grandi e profondi; erano lucidi e armoniosi, splendenti nella luce che proveniva dallo spiraglio della porta. Le pupille parevano così profonde che vi era il rischio di perdersi in una tanto nera vertigine; ma lo stesso smarrirsi in quegli occhi era la cosa più bella che al principe fosse mai accaduta, come se precipitando in quei due pozzi d’oscurità, egli fosse riuscito a salire fino alla più alta delle sue gioie.

Fu sufficiente uno sguardo fra i due per farli innamorare. Elisabetta si alzò con calma e senza che una parola fosse detta, appoggiò le sue labbra chiare su quelle del giovane che aveva dinnanzi. Il bacio fu lento e innamorato, privo di qualsiasi voracità e fretta. Poi, si presero per mano e partirono sul cavallo del principe alla volta di una nuova vita in cui non vissero sempre felici e contenti, nella quale però mai e  poi mai smisero di essere certi del loro nobile amore.

18 febbraio 2011

Maschera

Il velo di stoffa scivola nell’ombra creando sensuali inganni e sfuggevoli illusioni.  La musica si fa veloce, conturbante, e il vertiginoso crescendo di armonia riempie l’ampio salone di mille gocce di suono. La luce ricade timidamente dalle alte volte, in cui sfilano imperiose lunghe file di lampadari di vetro. Il tempo è fermo, bloccato nello stesso eterno istante da pesanti tende rosse di velluto che coprono anche il minimo contatto con il mondo esterno. Un unico orologio sovrasta il balcone principale, là dove le due scalinate bianche arrivano a congiungersi, ed esso segna lento lo scorrere delle ore; la notte è sempre più tarda in un’atmosfera antica di secoli, pitturata nell’incanto della sala dalle alte note di un piccolo violino.


L’armonia è tenue ma allo stesso momento risuonante di una forza senza tempo, di un rispetto ancestrale più antico di qualsiasi cosa d’altro, tanto che niente smorza col suo rumore la magia della ripida musica. I passi dei danzanti si susseguono in maniera rigorosa e ordinata, seguendo un rituale di regole mai scritte, marchiate nel sangue e dettate dal cuore. Ogni coppia gira senza toccarsi neppure, in una frase del ballo dove solo lo sguardo definisce il vero movimento. Le maschere scure degli uomini si perdono nella bardatura rossa dello donne di fronte a loro.

Una maschera nera fissa la propria gemella purpurea. Nel profondo e rapido scambio di occhiate si gioca l’intero turbine della danza, e il deciso movimento dei due corpi tende a creare un cerchio impenetrabile e intimo, nella sua essenza più interna. L’armonia varia e la danza si fa più intensa mentre mani bramose si incontrano in alto sollevate a mezz’aria, creando un primo barlume di contatto, prima che la coppia si stringa avvicinandosi. La libidine esplode in un’acutissima nota di violino mentre i passi, frenetici e ritmati, sfuggono nella loro pur sensibile eleganza in un vorticare di emozioni senza nome, ormai irrefrenabili e ineludibili nel loro lussurioso incedere. La donna si addossa all’uomo, poi fugge di colpo prima di tornare nuovamente a contatto con l’altro corpo mentre i cuori accelerano il battito e la ragione perde la propria lucidità, lasciando che la musica stessa sia la guida del sentimento.

Le identità sono nascoste, le storie sconosciute; maschere innocenti cancellano intere vite in questa notte di pieno inverno, dove nulla ha importanza al di fuori dell’incedere del ballo. L’uomo in maschera nera non abbandona il tocco della propria donna, e in quell’intenso incontro tra le due mani, entrambi si possiedono come mai porterebbe a fare un qualsiasi altro rapporto.
Nulla è stato prima di ora, nulla sarà né fra un momento né mai. Il presente è il teso frangente che, solo, porta alla realizzazione del ballo accompagnato da una melodia che non si ripete nella maniera più assoluta pur all’interno del suo ciclo senza fine.

La maschera nera vede la figura rossa di fronte a lui farsi evanescente con una rapidità non umana e a nulla vale tendere la mano in un disperato gesto per trattenere la donna al suo fianco. Gli occhi dell’uomo si soffermano con innamorata cura su ogni angolo del salone fino a che la maschera purpurea non sboccia nuovamente in cima alla scalinata.
L’inseguimento ha inizio, i due personaggi si lanciano in un gioco di riflessi e diafane apparizioni dove non potrà esserci vincitore né tantomeno sconfitto. I corridoi del palazzo si susseguono silenziosi, alternandosi a ripidi scalini verso porte scure, serrate sul mistero di stanze mai aperte.

La donna è immobile in fondo ad una lunga stanza, totalmente disadorna eccettuate le lampade ad olio che tentano di illuminare l’incanto di un luogo dove il buio regna sovrano. Il gioco è terminato; l’uomo rallenta il passo mentre si appresta alla nobile figura che gli si pone davanti. Le labbra si avvicinano alimentando quella fiammella che vorace divampa nel più rovente fuoco della perdizione.


L’orologio rintocca di un’ora senza nome. Solo un’altra frazione di una magia senza fine. Una notte soltanto, ma una notte che nessuna vita potrebbe colmare. La magia della musica trasforma in arte ogni palpito del cuore mentre le coppie tornano a contendersi nel rogo secolare di una danza di fuochi fatui; dove ogni istante rifulge di un lampo avido e bramoso in un susseguirsi frenetico di vite mascherate.

4 febbraio 2011

Questa mail mi è arrivata in seguito alla pubblicazione di Spietato e Ho paura. Non condivido le posizioni e avrei molte cose da chiarire, ma mi sembra giusto mostrare anche un pensiero diverso dal mio.


La vita che mistero...mi trovo qua, in mezzo a una famiglia chiassosa e pazza a scrivere a colui che ha appena formalizzato il nero tunnel in cui l'uomo crede di poter vivere. Eppure, eppure la libertà, quella sensazione incredibile che provi di fronte a un tramonto marino mozzafiato esiste. La vita vera è libertà, libertà da ogni fattore esterno. Non si tratta dunque, miei cari scettici, di chiudersi a guscio su sé stessi cercando una fuga nello spazio ristretto del nostro cuore ma di aprirsi: più ci si apre e più si è aperti, liberi, felici e innamorati. L'amore non può esistere senza questa essenziale apertura alla realtà, la donna più bella può starti davanti e il tuo pensiero può restare ancora stoltamente ancorato alla soddisfazione del proprio desiderio. Riempire il nostro vuoto unendosi al baratro dell'altro è impossibile: l'amore, l'amicizia sono mezzi non FINI. Un amore fine a sé stesso è delusione, dolore, peso, LIMITE. Nessuno desidera una palla al piede, ma ogni uomo vuole sentirsi dentro alla vita, libero e potente, nel senso di capace, capace di vivere.
Così, l'incontrare l'altro, lo scoprire la sua conosciuta eppure tralasciata diversità è il mistero più grande. Come può il mio cuore legarsi in un modo così insopprimibile a un altro? Se la ragione è il criterio ultimo sulla realtà benissimo, se qualcuno riesce a esistere come indipendente dai propri sentimenti, ad arrivare a uno stato tale di atarassia, me lo faccia sapere, perchè io non ne sono capace. Io ho bisogno di arrendermi alla vita che irrompe in me, il mio guscio ha ceduto da un pezzo. All'inizio l'impatto è abbagliante, la pupilla si ritrae improvvisamente di fronte alla luce folgorante eppure, dopo un attimo, la voglia di scoprire tutta la bellezza presente è incontrollabile. Come puoi desiderare di non amare? Vuoi divorare la vita, essere spietato, essere potente, ma la cosa più bella è lo scoprire che un albero che tende i suoi nodosi rami al cielo invernale non è stato creato da te, se lo fosse non proveresti più stupore per nulla. La meraviglia, questo lo avevano capito anche i Greci, è l'origine di tutto: smetti di stupirti e smetti di vivere. Ti auguro di vivere come vorresti, non come pensi. Rimani aperto, non chiudere nessuna porta altrimenti i regali non possono entrare.
Io ricevo regali ogni giorno e la cosa più bella è guardare l'altro mentre parla, ride, piange, urla e dire: cazzo ma questo qua è come me eppure non l'ho fatto io. Prova a guardare una persona negli occhi, magari quella che ti piace e che vedi così bella e domandati: cosa ho fatto io di buono per meritarmela?

V.