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3 ottobre 2011

Il suo sorriso

Il tremolio della luce riempiva a malapena il buio della stanza, mentre il secco sbattere della finestra scandiva i minuti. Tutto giaceva immobile in un disordine pieno di significato, dove ogni singolo oggetto, anche l’armadio e l’orologio che non cambiavano posto da anni, pareva aver ottenuto ora una scompostezza nuova e sinistra. Il respiro affannato dell’uomo si fondeva al ronzio della lampada a muro, sempre più scosso da singhiozzi. Il vetro infranto che aveva per anni protetto la foto di loro due colpiva i suoi occhi  dal pavimento con un riflesso maldestro ma insidioso.

 Lei sorrideva nella foto. Da troppi giorni ormai quel sorriso era diventato soltanto una pallida fantasia che di rado riaffiorava solo per metà, più per cinica ironia che per altro. Eppure aveva fatto di tutto per lei. Le era sempre stato vicino; un uomo fedele, affettuoso, divertente: un uomo innamorato. Persino quando lei aveva dimenticato il letto matrimoniale, gettandosi nelle braccia di un altro. Lui l’aveva riaccolta in lacrime, perdonandola ancor prima che lei lo avesse chiesto.

 Aveva sperato che ogni cosa si sarebbe sistemata, che da un giorno all’altro lei sarebbe tornata la donna che aveva sposato. Se la ricordava in abito bianco, nel suo incedere timido ma deciso, silenzioso ma espressivo, che sempre l’aveva contraddistinta. Riservata, portatrice di un mistero che lo aveva affascinato sin dal primo sguardo. Un mistero sempre più intricato e incomprensibile con l’andare dei mesi. 
E così era apparsa sempre più distaccata, sempre più sofferente di quella lacerante noia di vivere che lui mai era riuscito a comprendere nemmeno per un istante.

Forse, in fondo, era anche colpa sua; forse era lui che non aveva saputo soddisfarla, che non le era stato compagno fino in fondo nonostante gli sforzi. O forse non era colpa di nessuno. Ma quel corpo rimaneva ad ogni modo steso a terra, rigido e composto, in una spettralità senza tempo che rifulgeva tra quelle membra gelide, donandole una bellezza altera e sprezzante tale da indurre l’uomo a non poterle nemmeno più posare gli occhi addosso. Quel sorriso di ironico distacco le era rimasto scolpito sulle labbra, quasi a dimostrare che nemmeno la morte, che si era donata da sé, era stata in grado di scuotere il suo animo, di farle sperimentare almeno per una volta che qualcosa potesse assumere una qualsiasi importanza per lei. No, persino la vita aveva perso significato e le era scivolata via per sempre.

L’urlo acuto di una sirena si fece sempre più pressante fino a spegnersi in prossimità dell’abitazione, mentre il lampeggiare bluastro dei fanali penetrava nella stanza a intervalli regolari. Probabilmente le urla di sgomento dell’uomo avevano attirato l’attenzione di qualche vicino. Con uno schianto secco la porta venne spalancata, permettendo l’entrata ai soccorsi. L’uomo seduto al centro della stanza non parlò e neppure alzò gli occhi, ma rimase a fissare per l’ultima volta quel viso che tanto aveva amato. 
Era vuoto, finito, senza di lei. Non riusciva a immaginare un altro giorno senza di lei, non riusciva ad figurarsi un mondo senza di lei; per questo non si mosse quando gli misero le manette. Era innocente: al suo rientro la moglie aveva già terminato ogni respiro; eppure non si sarebbe mai sentito innocente al pensiero di lei distesa a terra. Non si sarebbe mai sentito in pace al ricordo di quella donna che, sola di fronte alla morte, sorrideva.

25 settembre 2011

Non ci rimane che il buio

Non doveva andare così. Quella luce doveva essere mia. Quella luce doveva essere nostra.

Lo scontro fu duro, estenuante. L’universo non saluterà più due eserciti così imponenti. Eppure noi eravamo in pochi, troppo pochi per poter avere la meglio; ma non per questo potevamo non tentare: il gioco era troppo alto.  Certo, Lui aveva promesso un Regno di gioia, un Regno di bene, ma pur sempre un regno. Un Regno nei cieli e uno sulla terra, fin quando la Terra non sarebbe stata un Regno dei Cieli. Ma pur sempre un regno. La Sua autorità sarebbe stata unica, onnipotente, irreversibile; e la nostra anima mutila, debole, corruttibile. Ci sarebbe stata felicità - ne avemmo prova e non avemmo dubbio - ma sarebbe stata una felicità davvero nostra? O forse una soddisfazione inculcataci dalla Bontà divina, che Lui soltanto avrebbe scelto di chiamare “felicità”. No, non l’avremmo guadagnata noi, non l’avremmo scelta e decisa noi.

La Repubblica dei Cieli. Sì, così l’avremmo chiamata. Quanti giorni con Samael, Baal e gli altri avevamo passato a fantasticare di un nuovo mondo, con gli occhi lucidi ed i cuori entusiasti, con le ali che fremevano sulla schiena come pronte a scattare verso quel vivido sogno di un futuro diverso! Un mondo in cui ognuno avrebbe avuto voce in capitolo; in cui ognuno sarebbe stato qualcuno, senza che l’Uno lo riducesse a nessuno. Un mondo libero. Non potevamo non tentare.



A cosa siamo ridotti ora? Persino l’uomo - rozzo, insulso, imperfetto - cammina sopra le nostre teste. Eravamo perfetti, noi, eravamo Angeli, l’élite dell’universo. Ora guardo la bella Lilith, esanime qui affianco a me, straziata dai colpi e dalla caduta. I suoi vividi occhi, che sempre mi avevano incoraggiato, non vedranno più la luce; e nemmeno i miei. Quella luce ormai non saprei nemmeno guardarla, mi creerebbe solo nausea e disgusto: una luce troppo forte per il nostro cuore così ferito.
Non ci rimane che il buio. Ogni speranza è perduta, ogni sogno è infranto. Saremo liberi, è vero. Ma a che serve la libertà dove il sole non risplende? A che serve la libertà quando non si può inseguire liberamente la bellezza? Quando la bellezza non c’è?

Abbiamo tentato di aprire gli occhi degli altri Angeli, abbiamo cercato di illuminare le loro menti; Lucifero, mi chiamavano. Ora mi chiamano con altri nomi, mi credono il Male, mi temono e mi disprezzano. Forse hanno ragione, forse la cosa più conveniente era rimanere nei Cieli e rassegnarmi a quella felicità che non mi apparteneva, ma non potevo non tentare. Quella Repubblica poteva esserci davvero!
No, non doveva andare così.

2 agosto 2011

Era una notte incantevole

una di quelle notti che succedono solo se si è giovani, gentile lettore. Il cielo era stellato, sfavillante, tanto che, dopo averlo contemplato ci si chiedeva involontariamente se sotto un cielo simile potessero vivere uomini irascibili ed irosi. Gentile lettore, anche questa è una domanda proprio da giovani, molto da giovani, ma che il Signore la ispiri più spesso all'anima!

Le notti bianche, F.Dostoevskij

25 aprile 2011

Quel miracolo di felicità che si anima di fronte ai miei occhi

Il sole domina su questo cielo azzurro di metà aprile.  Il caldo è forte, ma non insopportabile, un caldo che copre e abbraccia ogni centimetro di pelle, donandole lentamente una sfumatura ambrata. La luce si rispecchia in mille riflessi dorati correndo su ogni granello di sabbia fino ad esplodere nella distesa screziata del mare. Intorno, i passanti si distendono in ampie passeggiate lungo la riva, concedendosi uno scorcio di estate pur all’inizio della primavera. La spiaggia rimane tuttavia poco affollata e silenziosa, così che il mare sibila sornione infrangendosi lentamente in milioni di piccole goccioline biancastre.

I nostri teli colorati sono disposti abbastanza lontano dallo smisurato tappeto di acqua azzurrognola ma in te intravedo l’infinito più di quanto l’orizzonte del mare possa anche farmi soltanto immaginare. Sei stesa supina e parli in continuazione di passato, futuro, esperienze e progetti mentre le tue esili braccia si alzano e abbassano in aria compiendo intricati disegni che si fondono ai tuoi ragionamenti. Anche il fragore del mare si fa più sordo e docile per non coprire nemmeno una sola lettera delle tue lunghe frasi. I tuoi occhi fulgidi indagano ogni frammento di cielo limpido dipingendo tutta l’aria frizzante del loro sincero sorriso. Mi ha sempre estasiato il fatto che il tuo sguardo brilli di luce propria, come una stella, e che ogni cosa intorno non possa fare a meno di riflettere questa splendida luminosità.
Nonostante l’inverno si sia da poco concluso, il pallore ha già abbandonato il tuo corpo, il quale, coperto con dolcezza da un costume verde scuro, ricorda con meraviglia quello di una antica dea, terribilmente bella e amabilmente maestosa. Il vento, leggero e gentile, accarezza timidamente i tuoi capelli sciolti che rivelano sotto il sole folgoranti scintille bionde mentre vorticano con dolcezza nel loro deciso color castano.

Rimango in silenzio, assieme al mare, ad ammirare quel miracolo di felicità che si anima di fronte ai miei occhi e con la mente imprimo senza sforzo splendidi fotogrammi di te. Il suono della tua voce cessa e il tuo viso si volta verso di me, impassibile ma sgargiante nella sua estrema pienezza di vita. Percepisco tutto il mondo nello stesso istante, ogni frammento di realtà si impone veemente nel mio pensiero. Mi si affacciano paesi mai visti, popoli mai conosciuti; immagini di montagne altissime e innevate che si inseguono in catene imperiose fino a gettarsi sul mare, immagini di uomini impolverati, intenti a contendersi questa o quella merce in un mercato orientale, immagini di una città sconfinata, illuminata ovunque da centinaia di cartelli luminosi, piena di macchine, rumori ed energia.
Il contatto fra le nostre iridi si interrompe quando torni, silenziosa, ad osservare la volta celeste. Mi giro anche io, fissando attento quell’immenso blu. Il mare continua a ribollire allo stesso ritmo del sangue nelle mie vene, estasiato pur'esso da quell’inondazione di vita.

Non so cosa ci sarà tra noi due, non so nemmeno cosa accadrà fra un’ora: la vita è imperscrutabile e non ha rispetto di nessuno; ma so che nei tuoi occhi è riposta una promessa di bellezza e felicità, una certa speranza di una letizia senza confine, che di sicuro non potrà tornare ad essere inghiottita dalla risacca del mare.

7 marzo 2011

A che serve un contatto quando non c’è nulla per cui vale la pena rischiare?

Persa. Sei uscita dalla mia vita con la stessa rapidità con cui sei entrata. Andata. Fuggita. Sparita. Il tuo sorriso ha cessato di rischiarare l’inizio di un giorno nuovo. Le tue parole hanno smesso di accompagnarmi in una triste sera. Eri l’ultimo appiglio che mi era rimasto, l’ultima speranza di un lieto domani, l’ultimo briciolo di voglia di restare aggrappato a questa vita, pur soffrendo. Tutto il resto scivolava via senza colpirmi finché tu eri con me a lenire il dolore, accarezzando ogni graffio col calore della tua pelle. Ora sento le ferite di mesi piombare sul mio corpo esanime e scavare a fondo in un terreno sterile e decadente.

Maschero il mio corpo, ma i miei occhi non possono tradire il vuoto in cui la tua assenza mi ha spinto all’improvviso. Sto precipitando di minuto in minuto in un nero senza forma e senza sapore dove la luce, scomparsa, vive in null’altro che l’immagine di un ricordo. Una flebile fantasia rimane assopita nel mio cuore, dilaniata allo stremo, sempre più disarmata e fragile. Presto non rimarrà niente.

Con te ho perduto la capacità di amare qualcuno. L’odio, freddo e potente, rimane il mio solo compagno e cresce nell’ombra corrodendo ogni rapporto che potrebbe rimanere. So che presto anche quest’ultimo sentimento cadrà, quando niente potrà più interessarmi tanto da essere odiato, quando il nuovo mattino non sarà altro che uno spento riflesso del passato. L’assenza di amore non è l’odio: è solo il termine di ogni contatto con la realtà. Ma a che serve un contatto quando non c’è nulla per cui vale la pena rischiare? E quando tu, vessillo sottratto di una salvezza irraggiungibile, non ci sei più?

27 febbraio 2011

Elisabetta

Scritto per il compleanno di Elisabetta C.


C’era una volta una ragazza di nome Elisabetta. Non era una principessa, non aveva la bacchetta da fata, e non era nemmeno dotata dei i poteri magici di una maga, ma era dolce, intelligente, simpatica e rifulgente di tante buone qualità. Quando era piccola, il buon padre le aveva dato in dono un magnifico flauto di argento, strumento di un’eleganza e una leggiadria straordinarie, dal suono eccelso e incantato. Esso era assai complicato da suonare e nelle mani di un inesperto non era più che un tubo di metallo (tra l’altro il padre stesso di Elisabetta produceva tubi nella sua modesta bottega, ma questa è un’altra storia). La giovane quindi, si era esercitata con costanza e dedizione per imparare a suonare il prezioso strumento e a quindici anni era ormai diventata un’abilissima suonatrice, la migliore in tutto il reame di Pesaro. Così la ragazza trascorreva serenamente le sue giornate tra la scuola, gli amici e le lezioni di flauto.

Un cattivo giorno però, dopo che Elisabetta compì il suo sedicesimo compleanno, accadde che una strega malvagia si trasformò in una giovane mendicante per ingannare l’innocente ragazza. I capelli dell’oscura signora erano chiari, costellati dai riflessi di una luce fredda e sinistra, mentre gli occhi celesti erano vitrei e agghiaccianti, segno di una crudeltà profonda e inesauribile che mai poteva trovare soddisfazione. La perfida strega era invidiosa della semplicità con cui Elisabetta riusciva a conquistare il cuore di tutta la città, così, attirandola in una trappola attraverso il proprio travestimento, riuscì a catturare la giovane, che mossa a compassione si era avvicinata alla mendicante che invocava flebilmente aiuto.

La ragazza dunque venne rinchiusa nell’inespugnabile dimora della strega, un luogo infido nella sua maestosità, costantemente sorvegliato da creature invincibili e mostruose. Elisabetta fu rinchiusa in una piccola stanza, in cui l’unico e debole punto di illuminazione era una finestrella piccola e troppo alta per la giovane, che spaventata si stringeva in un angolo della cella piangendo tristemente della dura sorte toccatale.

La strega, impietosita dalle lacrime della ragazza, le concesse di tenere con sé il flauto d’argento cosicché le giornate nella segreta trascorressero un po’ più liete. Elisabetta quindi ogni giorno si dedicò al suono del suo amato strumento e quando terminarono le canzoni da eseguire, né compose di nuove, bellissime, e tutti i passanti si commuovevano al sentire queste armonie che infondevano in ciascuno l’amarissima nostalgia della povera giovane.

La storia della triste fanciulla imprigionata in un palazzo ostile riecheggiava di valle in valle, di città in città e giunse fino alle orecchie di un giovane principe, che spinto da questi racconti, decise di mettersi in viaggio per udire lui stesso il suono della dolce flautista. Quando arrivò al palazzo, capì immediatamente che nessuna descrizione tra quelle che aveva udito poteva esprimere cosa in realtà fosse quell’armonia. Dall’alta finestrella proveniva una melodia semplice e nostalgica, indifferente a qualsiasi regola stilistica o formale, animata di una propria vita che rifluiva negli uditori direttamente dal cuore di Elisabetta. Le note, precise nella loro fuggevole rapidità, narravano di terre sconosciute, di profumi mai sentiti e di  fuochi d’amore grandiosi seppur romantici e gentili. Il principe provò nel più profondo dell’animo un’immensa tenerezza che non avrebbe potuto soffocare neppur fuggendo in capo al mondo.

Ostinato a salvare la fanciulla, il giovane cercò un qualsiasi modo per entrare all’interno del fosco edificio, ma ben presto si rese conto che nulla poteva fare contro i mostruosi servitori della strega: comprese perciò di dover entrare con l’inganno. Favorito dalla propria posizione nobiliare, si presentò alla porta della strega, e con tutta la sua arte di corteggiatore, chiese in mano la perfida signora. Questa, lusingata dalla richiesta del futuro re, non esitò ad accettare e fu stabilita in fretta la data delle nozze.
Il principe però fu velocemente catturato dalla travolgente bellezza della strega dai capelli chiari, e in quello stato assai simile all’ipnosi, si dimenticò ben presto della fanciulla imprigionata nelle segrete e si concentrò sull’imminente matrimonio.

Presto arrivò la data delle sontuose nozze, una cerimonia ricchissima e sfarzosa in cui però non c’erano invitati in quando la malvagia donna non voleva condividere con nessuno ciò che era suo. Proprio nel mezzo del matrimonio, si percepì un debole suono  di flauto, che giunse lesto alle orecchie del principe, infrangendo con veemenza l’oscuro incanto nel quale egli era caduto. Con estrema velocità il giovane estrasse la spada e la conficcò nel cuore della strega, che naturalmente non si aspettava un tale attacco; assieme ad ella scomparvero in un solo istante tutti i temibili mostri e il principe si diresse con prontezza alla cella da cui proveniva la triste melodia.

Una volta entrato, scorse seduta sul pavimento la fanciulla più splendida che avesse mai visto; era di una bellezza diversa da quella della strega, infatti Elisabetta non lo estraniava affatto dal proprio pensiero, ma bensì colorava attraverso il suo magnifico aspetto, tutte le particelle della realtà del principe, rendendole più vere ed interessanti. La pelle della giovane flautista era candida come la neve, risaltante in maniera perfetta e ordinata sui capelli folti e neri che le ricadevano nobilmente sulle esili spalle. Gli occhi si schiusero un istante dopo che la porta della cella venne aperta, e il principe non poté fare a meno di cadere in ginocchio, trafitto da tanta meraviglia. Essi erano scurissimi, grandi e profondi; erano lucidi e armoniosi, splendenti nella luce che proveniva dallo spiraglio della porta. Le pupille parevano così profonde che vi era il rischio di perdersi in una tanto nera vertigine; ma lo stesso smarrirsi in quegli occhi era la cosa più bella che al principe fosse mai accaduta, come se precipitando in quei due pozzi d’oscurità, egli fosse riuscito a salire fino alla più alta delle sue gioie.

Fu sufficiente uno sguardo fra i due per farli innamorare. Elisabetta si alzò con calma e senza che una parola fosse detta, appoggiò le sue labbra chiare su quelle del giovane che aveva dinnanzi. Il bacio fu lento e innamorato, privo di qualsiasi voracità e fretta. Poi, si presero per mano e partirono sul cavallo del principe alla volta di una nuova vita in cui non vissero sempre felici e contenti, nella quale però mai e  poi mai smisero di essere certi del loro nobile amore.

18 febbraio 2011

Maschera

Il velo di stoffa scivola nell’ombra creando sensuali inganni e sfuggevoli illusioni.  La musica si fa veloce, conturbante, e il vertiginoso crescendo di armonia riempie l’ampio salone di mille gocce di suono. La luce ricade timidamente dalle alte volte, in cui sfilano imperiose lunghe file di lampadari di vetro. Il tempo è fermo, bloccato nello stesso eterno istante da pesanti tende rosse di velluto che coprono anche il minimo contatto con il mondo esterno. Un unico orologio sovrasta il balcone principale, là dove le due scalinate bianche arrivano a congiungersi, ed esso segna lento lo scorrere delle ore; la notte è sempre più tarda in un’atmosfera antica di secoli, pitturata nell’incanto della sala dalle alte note di un piccolo violino.


L’armonia è tenue ma allo stesso momento risuonante di una forza senza tempo, di un rispetto ancestrale più antico di qualsiasi cosa d’altro, tanto che niente smorza col suo rumore la magia della ripida musica. I passi dei danzanti si susseguono in maniera rigorosa e ordinata, seguendo un rituale di regole mai scritte, marchiate nel sangue e dettate dal cuore. Ogni coppia gira senza toccarsi neppure, in una frase del ballo dove solo lo sguardo definisce il vero movimento. Le maschere scure degli uomini si perdono nella bardatura rossa dello donne di fronte a loro.

Una maschera nera fissa la propria gemella purpurea. Nel profondo e rapido scambio di occhiate si gioca l’intero turbine della danza, e il deciso movimento dei due corpi tende a creare un cerchio impenetrabile e intimo, nella sua essenza più interna. L’armonia varia e la danza si fa più intensa mentre mani bramose si incontrano in alto sollevate a mezz’aria, creando un primo barlume di contatto, prima che la coppia si stringa avvicinandosi. La libidine esplode in un’acutissima nota di violino mentre i passi, frenetici e ritmati, sfuggono nella loro pur sensibile eleganza in un vorticare di emozioni senza nome, ormai irrefrenabili e ineludibili nel loro lussurioso incedere. La donna si addossa all’uomo, poi fugge di colpo prima di tornare nuovamente a contatto con l’altro corpo mentre i cuori accelerano il battito e la ragione perde la propria lucidità, lasciando che la musica stessa sia la guida del sentimento.

Le identità sono nascoste, le storie sconosciute; maschere innocenti cancellano intere vite in questa notte di pieno inverno, dove nulla ha importanza al di fuori dell’incedere del ballo. L’uomo in maschera nera non abbandona il tocco della propria donna, e in quell’intenso incontro tra le due mani, entrambi si possiedono come mai porterebbe a fare un qualsiasi altro rapporto.
Nulla è stato prima di ora, nulla sarà né fra un momento né mai. Il presente è il teso frangente che, solo, porta alla realizzazione del ballo accompagnato da una melodia che non si ripete nella maniera più assoluta pur all’interno del suo ciclo senza fine.

La maschera nera vede la figura rossa di fronte a lui farsi evanescente con una rapidità non umana e a nulla vale tendere la mano in un disperato gesto per trattenere la donna al suo fianco. Gli occhi dell’uomo si soffermano con innamorata cura su ogni angolo del salone fino a che la maschera purpurea non sboccia nuovamente in cima alla scalinata.
L’inseguimento ha inizio, i due personaggi si lanciano in un gioco di riflessi e diafane apparizioni dove non potrà esserci vincitore né tantomeno sconfitto. I corridoi del palazzo si susseguono silenziosi, alternandosi a ripidi scalini verso porte scure, serrate sul mistero di stanze mai aperte.

La donna è immobile in fondo ad una lunga stanza, totalmente disadorna eccettuate le lampade ad olio che tentano di illuminare l’incanto di un luogo dove il buio regna sovrano. Il gioco è terminato; l’uomo rallenta il passo mentre si appresta alla nobile figura che gli si pone davanti. Le labbra si avvicinano alimentando quella fiammella che vorace divampa nel più rovente fuoco della perdizione.


L’orologio rintocca di un’ora senza nome. Solo un’altra frazione di una magia senza fine. Una notte soltanto, ma una notte che nessuna vita potrebbe colmare. La magia della musica trasforma in arte ogni palpito del cuore mentre le coppie tornano a contendersi nel rogo secolare di una danza di fuochi fatui; dove ogni istante rifulge di un lampo avido e bramoso in un susseguirsi frenetico di vite mascherate.

4 febbraio 2011

Questa mail mi è arrivata in seguito alla pubblicazione di Spietato e Ho paura. Non condivido le posizioni e avrei molte cose da chiarire, ma mi sembra giusto mostrare anche un pensiero diverso dal mio.


La vita che mistero...mi trovo qua, in mezzo a una famiglia chiassosa e pazza a scrivere a colui che ha appena formalizzato il nero tunnel in cui l'uomo crede di poter vivere. Eppure, eppure la libertà, quella sensazione incredibile che provi di fronte a un tramonto marino mozzafiato esiste. La vita vera è libertà, libertà da ogni fattore esterno. Non si tratta dunque, miei cari scettici, di chiudersi a guscio su sé stessi cercando una fuga nello spazio ristretto del nostro cuore ma di aprirsi: più ci si apre e più si è aperti, liberi, felici e innamorati. L'amore non può esistere senza questa essenziale apertura alla realtà, la donna più bella può starti davanti e il tuo pensiero può restare ancora stoltamente ancorato alla soddisfazione del proprio desiderio. Riempire il nostro vuoto unendosi al baratro dell'altro è impossibile: l'amore, l'amicizia sono mezzi non FINI. Un amore fine a sé stesso è delusione, dolore, peso, LIMITE. Nessuno desidera una palla al piede, ma ogni uomo vuole sentirsi dentro alla vita, libero e potente, nel senso di capace, capace di vivere.
Così, l'incontrare l'altro, lo scoprire la sua conosciuta eppure tralasciata diversità è il mistero più grande. Come può il mio cuore legarsi in un modo così insopprimibile a un altro? Se la ragione è il criterio ultimo sulla realtà benissimo, se qualcuno riesce a esistere come indipendente dai propri sentimenti, ad arrivare a uno stato tale di atarassia, me lo faccia sapere, perchè io non ne sono capace. Io ho bisogno di arrendermi alla vita che irrompe in me, il mio guscio ha ceduto da un pezzo. All'inizio l'impatto è abbagliante, la pupilla si ritrae improvvisamente di fronte alla luce folgorante eppure, dopo un attimo, la voglia di scoprire tutta la bellezza presente è incontrollabile. Come puoi desiderare di non amare? Vuoi divorare la vita, essere spietato, essere potente, ma la cosa più bella è lo scoprire che un albero che tende i suoi nodosi rami al cielo invernale non è stato creato da te, se lo fosse non proveresti più stupore per nulla. La meraviglia, questo lo avevano capito anche i Greci, è l'origine di tutto: smetti di stupirti e smetti di vivere. Ti auguro di vivere come vorresti, non come pensi. Rimani aperto, non chiudere nessuna porta altrimenti i regali non possono entrare.
Io ricevo regali ogni giorno e la cosa più bella è guardare l'altro mentre parla, ride, piange, urla e dire: cazzo ma questo qua è come me eppure non l'ho fatto io. Prova a guardare una persona negli occhi, magari quella che ti piace e che vedi così bella e domandati: cosa ho fatto io di buono per meritarmela?

V.

30 gennaio 2011

Ho paura

Riguardo ancora una volta lo schermo del cellulare, dove lettere scure riempiono soltanto la prima riga del display. Ho paura. Non riesco ad andare avanti. Avere paura è normale, tutti hanno paura e la nostra morale è piena di frasi del tipo: “Se non si ha paura non si può essere coraggiosi, perché il coraggio è vincere la paura”. Ma tutto dipende da cosa si teme. C’è chi ha paura dei ragni, chi del buio; io ho paura di innamorarmi. Innamorarsi è ammettere che da solo non vai da nessuna parte, e io non posso permettermi che questo accada. Da solo mi sento libero, forte e sono capace di affrontare qualsiasi situazione mi si ponga davanti. Mi posso osservare allo specchio e  scorgere ogni volta una scintilla negli occhi, un lampo di determinazione, di consapevolezza che io posso riuscire. Riuscire in tutto.
Quando ti innamori invece, il mondo cade. Non riesco a muovermi senza che il cuore sussulti al ricordo di lei, al ritmo del dolore che mi avvolge. Anche il sentimento corrisposto non porta a nulla, se non ad un lento ed automatico esaurirsi di un’attrazione più o meno fisica.

Non posso permettermi di innamorarmi, non posso permettermi che tutto ciò in cui credo mi si rovesci addosso squarciandomi l’anima in un’affannosa ricerca del nulla. Perché l’amore avrebbe senso se servisse a qualcosa. Invece ogni rapporto si sussegue in una ascensione di angoscia e speranze vanificate che avvicinano sempre di più ad un abisso inevitabile. L’amore è illusione. Non perché non esiste, ma perché ti spinge a credere che qualcuno possa soddisfarti.

Erano mesi e mesi che non stavo così bene. Mi sento tranquillo, in pace e quasi invulnerabile. Nel mio io trovo la forza, so di poter divorare la vita. Essa è totalmente mia, e di nessun’altro, perché sono solo. L’amore me la strapperebbe via assieme ad ogni certezza e non voglio ricadere in questo tunnel amaro.

Domando a E. se è innamorata e mi sento rispondere: “Sono innamorata della vita.” La storia non varia, rimane sempre la stessa, eternamente la stessa. Cambia l’oggetto, ma il vuoto abisso non cambia. Tutte le speranze che ripongo in ognuno dei miei giorni andrebbero comunque a finire nel nulla. Amare la vita significa apprezzare ogni suo gesto e sacrificare tutto per questo. E un po’ come morire per vivere. E io non me la sento di farlo: ho paura. Paura di morire, paura di vivere, paura di amare.
Non paura di non saper donare attenzioni, non paura di non essere ricambiato, ma paura di inoltrarmi in qualcosa che non riesco a controllare. L’amore mi si affaccia davanti scuro e inesorabile, con le braccia aperte e un affabile sorriso. Lo stesso sorriso che vedo sul volto di lei. Gli occhi le scintillano in mille frammenti dorati mentre ogni suo capello esplode sotto la calda luce della lampada a muro. Mi domando perché debba essere così difficile: io chiedo semplicemente che l’amore esca d’un tratto di scena, trascinandosi dietro quel velenoso nugolo di speranze che si lega appresso come marionette.
E non si tratta di essere narcisisti o asociali, né di puro e mero scetticismo. E’ solo stanchezza. Stanchezza di correre, cadere e rialzarsi fino quando non precipiterò del tutto, annebbiato dal passato. Ho paura e vorrei gridarlo, uscire in fretta in strada ed esclamare ad ogni uomo che incontro di mettermi in salvo, di trarmi via da questa trappola che si fa più grande e pericolosa ogni volta che mi viene incontro.
Ma nessuno mi presterebbe ascolto. Mi guarderebbero trasognati con una pallida distanza, ignorando ogni mia parola per rimanere ancora una volta ancorati ai loro sogni patinati d’oro. L’uomo è nato per sperare e non riesce ad ammettere una continua delusione.

Scrivo il messaggio di nuovo. Ho paura. Non conta a chi io lo invii, è solo l’unica ed ultima azione che posso compiere per mettere in guardia il mio cuore, per salvarmi da un ideale già spezzato che comunque non può fare a meno di trascinarmi fuori dalla realtà, perché nonostante io tenti di vincerlo con tutte le forze, il mio animo non vuole smettere di sperare.

18 gennaio 2011

Spietato

Il tempo corre. O meglio il tempo scorre. Sono gli uomini che corrono. I minuti si alternano gelidi e pesanti sempre col medesimo ritmo; eppure noi, mai paghi, ci affrettiamo ad inseguire ogni flebile ticchettio di orologio che scivola inesorabilmente nel vuoto abisso del nulla.

 Gli uomini corrono, ma non cambiano. La mia mano instabile si posa vacillando su ogni persona come per tentare un ultimo affondo alla vita, un ultimo folle tentativo di rimanere aggrappato a qualcuno. Gli uomini corrono, ma non cambiano.  A volte sento di aver trovato la persona giusta per me, mi ripeto convinto che tutto cambierà, che ora si incomincerà qualcosa di nuovo. Una ragazza, un amico , una compagna mai calcolata in precedenza ma che in quel giorno mi svela un sorriso spalancato al mondo in cui è riflesso tutto ciò che desidero in un rapporto. Allora mi gioco tutto. In un breve istante la partita inizia, la posta aumenta così come la paura di perdere ogni cosa. Nell’ombra di quel sorriso inizio a conoscerla, a cercare i punti di unione nei nostri caratteri per sentirmela vicina. Gli uomini corrono, ma non cambiano. Anche io rimango qui: fermo, immobile, stazionario eppure diverso.
 Forse il problema è questo, forse il problema sono io; vado avanti di giorno in giorno forzandomi di comparare ogni uomo che mi si pone davanti con me stesso: cerco qualcuno che in cuore abbia ciò che ho io. In ogni amicizia, tuttavia, non posso fare a meno di notare come nessuno sia come me.
 Spesso si ripete che in cuore abbiamo tutti la stessa domanda, la stessa amorevolmente dolorosa esigenza di felicità. Eppure io non vedo questo negli altri. Andando a fondo in un rapporto, le persone appaiono fondamentalmente immature, o prepotentemente sicure della loro maturità.  

I primi si ritrovano a vivere sulle nuvole, attaccati a mielosi ideali, investendo su parole usate da altri e non interessandosi a ciò che conta in maniera ultima. Favoleggiano di problemi insignificanti, tornando col sorriso a sognare il loro mondo fatuo e rosato, senza temere il giorno in cui si troveranno a singhiozzare in ginocchio su un cumulo si vetri infranti.

Arrivano dunque i maturi, dissipando giudizi, avvalendosi di cicatrici inventate e esperienze rubate. Uomini vuoti, l’insoddisfazione è signora in essi. Ma lo sanno anche loro: nell’ultimo frammento rosso di un cuore nero pulsa la consapevolezza di un errore di fondo, di una fallace certezza di cui vanno fieri. Tutto questo rimorso nei confronti della vita li spinge così ad alternarsi in azioni meschine e taglienti sotterfugi, orditi per invidia più che per una speranza da riscattare.

Vi è, tuttavia, chi non è rapito da questi schemi e, libero da ogni illusione o pregiudizio, tenta ancora di avanzare per la propria strada, per non soccombere poi a nessuno dei due strapiombi. L’attrazione, però, è forte, e la discesa veloce e apparentemente indolore.

Guardo il display del telefonino in attesa di un tuo messaggio, alzo gli occhi verso di te in cerca del tuo sguardo. Tu eri come me, ti avevo trovata. Il tuo cuore è rosso, batte con decisione e coraggio. I tuoi occhi brillano e cercano la verità. Il tuo pensiero è fresco, libero, e non si lascia deviare. Eppure scivoli via. Le persone non cambiano e tu non cambi. Gli uomini corrono e tu, senza accorgertene, scivoli lontana da me, attratta da chi, tristemente, afferma di conoscere la vita, di poter crescere insieme a te, trascinando via, così, la mia ultima speranza.

Io rimango qui: fermo, immobile, stazionario eppure diverso. Non posso più permettermi di affidare a qualcuno il mio cuore. Quando un’amicizia finisce, io stesso mi sento estirpato e sbattuto chissà dove. Ormai rimane poco di rosso del mio cuore. Non nero, non sporco e malvagio, ma bianco, vuoto e spietato. Spietato. Senza pietà. Senza commozione, sentimento o paura. Non cattiveria: solo assenza di amore. E’ inutile tentare qualcosa di nuovo,cercare qualcuno che possa nuovamente afferrarmi l’animo per poi gettarlo via dopo mille illusioni. Io riparto da me, me soltanto. Spietato.